Prima di parlare del rapporto del desiderio e la Storia, e con la post-Storia, resta sul tappeto infatti il suo sfondo teoretico. Nella svalutazione teoretico-speculativa heideggeriana del desiderio possiamo trovare una chiave ermeneutica utile per inquadrarlo.
In Essere e tempo Heidegger si occupa del desiderio nel § 41, L’essere dell’Esserci come Cura (Sorge). Quest’ultima è la determinazione ontologica fondamentale dell’Esserci. Indica che il Dasein è sempre proteso verso qualcosa, è – avrebbe detto Husserl – intenzionalità. Ma a diferenza di quest’ultimo, per Heidegger la disposizione intenzionale del Dasein non è rivolta solo verso comportamenti conoscitivi, ma in un senso più ampio, che comprende anche altri comportamenti. La Cura non è un essere puro, ma un poter-essere. Franco Volpi ricorda opportunamente che tra il 1920 ed il ’21 Heidegger aveva usato come suo equivalente il termine Bekümmerung, indicando così il “movimento” proprio della vita umana.
Anche in Sein und Zeit, dunque, il desiderio si colloca all’interno del discorso sull’Esserci come Cura, cioè dell’esser-avanti-a-sé dell’Esserci: “L’esser-avanti-a-sé non denota la tendenza isolata di un soggetto ‘senza mondo’, ma caratterizza l’essere-nel-mondo; il quale, consegnato a se stesso, è già da sempre gettato in un mondo”[1]. Siamo nel dis-astro, insomma.
Heidegger tratta del desiderio e però se ne distanzia: perché? La ragione è nel privilegio dell’istante, al quale lo Heidegger di Essere e tempo si attiene, privilegio che cassa fuori la struttura di differimento e di rimandi indiretti tipica del desiderare[2]. Quest’ultimo, infatti, ha una relazione originaria e costitutiva con la dimensione prossima del tempo: il desiderio è declinato al futuro, ma tiene un piede nel presente, nel Trieb da cui muove. Il che costituisce però un impedimento decisivo per far rientrare la posizione desiderante nella comprensione filosofica heideggeriana: «Nel desiderio, l’Esserci progetta il suo essere in possibilità che non solo non sono mai afferrate nel prendersi cura, ma la cui realizzazione non è mai né seriamente progettata, né realmente attesa. Il prevalere dell’’essere-avanti-a-sé’ nella forma del semplice desiderare, porta con sé l’incomprensione delle possibilità effettive»[3].
Attenzione: «Volere e desiderare, ontologicamente, sono necessariamente radicati nell’Esserci in quanto cura e non sono semplici esperienze vissute, ontologicamente indifferenti e immerse in una “corrente” del tutto indeterminata quanto al senso del suo essere», dice Heidegger. Anche il desiderare dunque rientra a pieno titolo nella Cura (Sorge), quell’essere dell’Esserci che salda in sé esistenzialità, effettività e deiezione. Ma ai fini dell’obiettivo ontologico fondamentale che si propone Essere e tempo – aggiunge Heidegger – che non mira a costruire un’antropologia concreta, non è qui il caso di descrivere adeguatamente una tendenza quale il desiderio. Pur tuttavia è possibile “accennare” al modo in cui questi fenomeni sono fondati esistenzialmente nella Cura.
Heidegger lega dunque il desiderio al volere, che tratta subito prima. Entrambi soggiacciono a quell’apertura costituita dall’«essere-avanti-a-sé». Ma è proprio il prevalere di questa struttura emotiva, direi, che consegna il desiderio all’inautenticità: «L’essere-nel-mondo in cui il mondo è essenzialmente progettato come mondo di desideri, si è irrimediabilmente abbandonato a ciò che è disponibile, in modo tale, però, che il disponibile, in confronto al desiderato, risulta sempre insufficiente». Come dire che il desiderio rischia di introdurre una misura di cattiva infinità nella Cura, una sorta di “vagheggiamento deiettivo” che tende a “chiudere le possibilità”. E qui Heidegger fa un’annotazione molto interessante: «Ciò che “c’è” nel vagheggiare del desiderio, diviene “mondo reale”»[4]. Quel che è avanti a noi, quindi ciò che a stretto rigore non c’è, diviene invece l’unica realtà, mondo reale. L’ottativo, il desiderato si sostituisce al dato e – il che è ancor più interessante – alla possibilità di cambiare davvero il dato e al suo pieno apprezzamento (il disponibile, rispetto al desiderato, risulta sempre insufficiente). Perciò dice che il desiderio chiude le possibilità.
È interessante che anche Ernst Bloch colga in modo simile una caratteristica analoga del desiderio: «Nel mondo c’è felicità a sufficienza, ma non per me: così dice ovunque a se stesso l’itinerante desiderio. In tal modo naturalmente il desiderio testimonia al tempo stesso che vuole solo tirar fuori qualcosa dal mondo e non cambiarlo»[5]. Una caratteristica quindi del desiderio, per Heidegger come per Bloch, sarebbe la sua inanità, se non si coniuga alla volontà.
[1] Martin Heidegger (1927), Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, pag. 240.
[2] Si veda di Fabio Ciaramelli, Heidegger e il diniego del desiderio, in Genealogia dell’umano: saggi in onore di Aldo Masullo, a cura di G. Cantillo e F.C. Papparo, Guida Editore, Napoli 2000, vol. II, pag. 311 e segg.
[3] Martin Heidegger (1927), Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino 1978, § 41, pag. 305.
[4] Ibidem.
[5] Ernst Bloch, Il principio speranza, cit., pag. 41.
Alcuni temi emersi nell’ultima lezione hanno contribuito a sollecitare in me delle riflessioni che volevo condividere qui sul blog. Esse prendono avvio dalla posizione heideggeriana e blochiana sul rapporto tra desiderio e dato, e sulla possibilità/impossibilità di cambiare il dato.
In questo tema sembra essere fondamentale anche la riflessione sul futuro e la speranza (appunto, di cambiare il dato); abbiamo visto come per Bloch la coscienza anticipante può contrastare l’angoscia connaturata alla nostra esistenza; “la speranza annega l’angoscia” – ma per Bloch e per Heidegger, il desiderio non vuole cambiare il mondo. Alla luce di questo, vorrei evocare Walter Benjamin, che suggella il suo saggio su “Le affinità elettive” di Goethe con la frase “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza” (preceduta da una interessante riflessione sulle stelle e sul loro valore simbolico). Ora, è nota la posizione critica di Benjamin sul progresso e sul futuro (la vera speranza per lui è solo messianica – ma un’analisi approfondita di questo tema richiederebbe troppo tempo e ci porterebbe fuori dal seminato); ho scelto questa frase come punto di partenza della mia riflessione perché può aiutare in un altro senso. Una questione su cui interrogarci, infatti, è: perché speriamo? Perché abbiamo bisogno di sperare? Come possiamo interpretare la frase di Benjamin?
Letteralmente, speriamo quando non c’è più possibilità di azione (e per coloro che non l’hanno); più in generale, speriamo trovandoci in una dimensione di sofferenza, in una dimensione patica. Speriamo perché dobbiamo combattere l’angoscia (l’esserci per la morte), la sofferenza – ecco il punto: la sofferenza. Il desiderio ha a che fare con il mondo, e quindi con il pathos, il patire – lo ribadisce anche Ugo Volli: desiderando (de-siderando) “si sfida il futuro stabilito per cercarne un altro, si passa dal sapere al fare o almeno al patire”. Dunque il desiderio ha a che fare con il mondo e con la sofferenza connaturata ad esso. Ma abbiamo qualcosa che può venirci in aiuto: l’arte. Mi richiamerò a riflessioni di carattere estetico elaborate da pensatori e studiosi ben prima di me, dicendo che gli uomini “producono” arte per tentare di sfuggire alla sofferenza – o almeno per testimoniarla (Adorno docet), trasfigurando così il dato e facendone emergere il suo Altro. Credo che questa riflessione sia opportuna se vogliamo tentare di elaborare una risposta a Bloch e ad Heidegger; anche perché arte e desiderio sono ovviamente connessi: l’immagine che apre il blog riproduce un’opera d’arte che lo conferma, e lo abbiamo visto anche in riferimento al cinema (la Settima Arte). In particolare, vorrei evocare “Cet oscur objet du désir”, per sottolineare un altro punto della mia riflessione abbozzato prima: il rapporto tra visibile ed invisibile, tra finito e infinito, sensibile ed intelligibile, dato e suo Altro. L’oggetto del desiderio è oscuro; il desiderio non può essere rappresentato del tutto: per questo in quel film ci sono due diverse attrici. Il desiderio è borderline tra il visibile e l’invisibile; forse – qui pongo una questione a tutti coloro che condividono riflessioni su questo blog – può essere visto come ponte, come porta tra queste due dimensioni (se non vogliamo identificarlo con l’invisibile – rischiando forse però di avvicinarci a quelle interpretazioni ultrapersonali e alla deriva che esse comportano). Abbiamo affermato che il desiderio non può fissarsi su oggetti determinati (riguarda insiemi o paesaggi) – dunque, nessun oggetto determinato può rappresentarlo. Vorrei argomentare ancora questa mia ipotesi tornando sul valore delle stelle; esse sono indispensabili, per potercene distrarre; ciò può voler dire che l’infinito, l’invisibile è indispensabile per noi, perché il sentirlo, l’avvertirlo, il desiderarlo ci fa sentire il nostro animo elevarsi (penso qui al sublime kantiano); le stelle ci ricordano che alle fondamenta (i “cunicoli bui”) della nostra esistenza c’è la dimensione del sentire (già Nietzsche, prima di Freud e Wittgenstein, lo aveva capito), c’è una dimensione che va al di là del dato – del mero dato. Naturalmente, in continuità con quanto detto prima, occorre ribadire che le stelle (l’infinito) sono sì indispensabili, ma così anche il finito, la dimensione terrena dalla quale osservarle – ancora una volta, con Nietzsche, Adorno, Klee, Leopardi possiamo dire che infinito e finito sono complicati ed entrambi necessari (anche qui devo esplicitare il mio debito nei confronti di chi si è già interrogato su questi temi).
Mi scuso se la mia riflessione è stata forse poco organica; tenterò allora di sintetizzare quanto detto: ho tentato di interrogarmi e fornire spunti di riflessione sul rapporto tra desiderio, sofferenza, speranza e arte, richiamando anche la conseguente riflessione sul rapporto tra visibile ed invisibile, tra dato e Altro del dato che a mio parere accompagna legittimamente ogni discorso sull’arte.
By: Andrea Annese on 1 novembre 2009
at 15:04
TRADIRE L’ETERNITA’ (1): Per tentare una definizione del concetto di desiderio, penso sia necessario metterlo in correlazione con un altro (e non meno complesso) concetto: quello di tempo. Come opportunamente è stato ricordato, l’etimologia della parola desiderio è oscura. Semanticamente, de-siderare potrebbe indicare il movimento del distogliere lo sguardo dalle stelle per volgerlo altrove (de-siderare; de-sidus, laddove sidus in latino è traducibile con la parola “stella”, “astro”). Ugo Volli, ragionando su “questo strano verbo che parla di un qualche rapporto con le stelle”, ipotizza che il desiderare permetterebbe di volgere lo sguardo verso la dimensione orizzontale del mondo, e di “decidere di non regolare la vita sulla base di un destino verticale, che cala dall’alto” (Ugo Volli, Figure del desiderio). Si tratta, insomma, di un’interpretazione “spaziale”, bi-direzionale e teleologica di questo concetto. In questa sede proverò (molto umilmente) ad avanzare un’ipotesi diversa: e se il desiderare fosse considerato come il moto dell’intelletto che introduce la temporalità nell’umano? Per comprendere una prospettiva così ardita occorre forse far ricorso al nostro patrimonio di immagini. Le stelle sono entità fisse, rifulgenti ma immobili, scolpite per l’eternità su di un muro di tenebre. Quando immagino un cielo notturno, trapunto dagli astri in più punti luminosi, la prima idea che mi coglie è quella della fissità e, di rimando, quella di eternità.
Sulla base di questo ragionamento, volgere lo sguardo al di là (o al di qua, direbbe forse Nietzsche) delle stelle, potrebbe voler dire calarsi nella temporalità e nel divenire di tutte le cose. In definitiva, senza temporalità, il desiderare risulta impossibile. Si tratta di un concetto “anfibio”, insomma, che possiede una struttura temporale multipla. Da un lato affonda le sue radici nel passato; dall’altro, è proteso verso il futuro. Esso rinvia. Differisce. Le due fenomenologie del desiderio, riconducibili l’una a Freud e l’altra a Bloch, sono forse le facce complementari di una stessa medaglia. E’ ragionevole intendere il desiderio come mancanza, come traccia mnestica di qualcosa che si è avuto in passato e che si è ormai perduto; d’altronde, però, è proprio lo slancio verso il futuro il quid del desiderio. Esso è passato e futuro. Mancanza di qualcosa che si è perso, e pienezza della rappresentazione di ciò che aneliamo.
By: Riccardo Fraddosio on 2 novembre 2009
at 11:26
TRADIRE L’ETERNITA’ (2): Si potrebbe perciò ipotizzare che sia il desiderio stesso, in definitiva, la spinta verso il pro-getto (verso l’esistere progettuale e costruttivo). Su questo punto, è chiaro, il confronto con il punto di vista di Heidegger è del tutto ineluttabile. Il filosofo di Essere e tempo, infatti, ritiene che il desiderare conduca all’essere inautentico. Porterebbe infatti ad “un vagheggiamento deiettivo” e, in ultima istanza, alla non autenticità. Il motivo di questa critica risiede, come lei afferma, nel fatto che Heidegger privilegia l’istante. A mio avviso, tale priorità ontologica è definita sulla scia dell’eredità di quello che Platone definiva “il maestro temibile”: Parmenide. Ogni filosofo – io credo – si trova costretto a confrontarsi con il Parmenide che permane in lui (nei suoi ragionamenti e nel suo linguaggio) nonostante i secoli trascorsi. Proprio nel Parmenide platonico, si definisce l’istante (exàiphnes) intendendolo come un qualcosa di temporale e non temporale insieme. Un frammento isolato che, in quanto tale, sfugge al divenire delle cose. Parlando delle proprietà dell’Essere, Parmenide dice che “l’istante si situa tra il movimento e la quiete, senza essere in alcun tempo” (Parmenide di Platone; traduzione di Cambiano). A questa concezione statica e atemporale in cui sembra sfociare ogni ontologia, è forse necessario contrapporre una filosofia della vita e dell’azione, che intenda il desiderare come la dynamis che apre l’orizzonte del possibile. Infine una considerazione sulle “macchine desideranti” di Deleuze. Postulare l’esistenza di un’entità meta-individuale, intendendola come il Soggetto ultimo del desiderare, mi sembra un tentativo di reiterare un certo tipo di strutturalismo (o di “morte dell’uomo” di foucaultiana memoria). E’ forse più corretta l’impostazione di Aristotele e di Sartre, fondata sul concetto di desiderio in quanto scelta consapevole. Nasce in me la tentazione di riprendere la struttura logico-argomentativa della critica che Feuerbach ha mosso all’idea di Dio: attenzione a non attribuire ad un ipotetico soggetto metafisico caratteristiche umane. Troppo umane.
By: Riccardo Fraddosio on 2 novembre 2009
at 11:27
Difficilmente qualcuno si ritroverà a desiderare di rompersi una gamba o di scoprire che al bar della facoltà è finito proprio quello che voleva mangiare: se questa è una constatazione apparentemente ovvia, non credo sia invece scontato il motivo per cui ciò avviene. La domanda è, dunque, perché si desidera e perché in questa modalità.
Sono del parere che il desiderio – qualunque esso sia e con qualunque grado o intensità si manifesti – abbia il suo fondamento in una motivazione, che è quasi un “anti-movente” per prevenire un terribile crimine: ha, infatti, la funzione di “istigare” il soggetto, soprattutto contro sé stesso, contro la propria inerzia o sfiducia o viltà (al contrario di timori e cautele che spesso frenano il soggetto, in difesa di quel sé con il quale non si può fare a meno di vagabondare).
Il soggetto si muove e può operare solo all’interno di una (assai ristretta) regione di spazio e tempo, nella quale è stato gettato fin dalla nascita e della quale sperimenta in ogni istante la finitudine.
Gettato nel finito, nel limitato: esperienza che il soggetto riprova finanche ad ogni risveglio, quando deve abbandonare la libertà delle forme e rappresentazioni oniriche, per constatare come il suo letto si trovi – come sempre – ad un metro di altezza da terra ed a pochi istanti dalla cucina.
Il desiderio di cui siamo sempre desiderosi, così come le suggestive emotività suscitate da esso (in primis la speranza, seguita da volontà, coraggio, determinazione, ambizione) danno invece la possibilità al soggetto che veglia e – suo malgrado – si sveglia di proiettare e gettare sé stesso proprio oltre quei limiti che il sogno non conosce.
Attraverso il desiderio il soggetto può con molta facilità visualizzare sé stesso in un minuto o in un paesaggio non ancora – e forse mai – esistente, come proiettile libero da qualunque traiettoria o moto rettilineo uniforme. Una stra-ordinaria potenza. Potere di stra-volgere la consuetudine.
Il desiderio – lungi dal volersi uniformare alla realtà – è dunque performativo, crea deformando e deformalizzando. Nel momento in cui sto desiderando di saziarmi al bar di facoltà io posso figurare me stesso già lì e tutto ciò indipendentemente dal luogo che voglio raggiungere (che a mia insaputa potrebbe essere chiuso per esempio). Questo mostra il legame profondo tra desiderio ed immaginazione: entrambe espressioni della nostra fantasia e dal rischio insito (visto che si ha a che fare con “fantasmi”). In ogni caso, fintanto che il mio desiderio perdurerà, io non starò mai solo camminando, bensì sarò sempre in cammino verso qualcosa e la mia figura – elevandosi al di sopra del reale visibile e tangibile – sarà anch’essa un po’ “spettrale”.
Immersi nella realtà, siamo allora sempre sul punto di dirigerci verso qualcosa e così anche gli altri intorno a noi: insieme e di continuo determiniamo un incalcolabile concatenamento con i nostri “percorsi”, che altro non sono se non desideri posti in atto.
Secondo Sartre, ad esempio, la realtà risulta estremamente soggettiva, proprio perché ciascun individuo se la rappresenta a seconda dei propri desideri, vedendo e fissando lo sguardo soprattutto su qualcosa e non su altro: la realtà, perciò, muterebbe alla velocità con cui sorge un nuovo desiderio ed il soggetto – avendo la possibilità di riprogettare la propria vita in ogni istante – sarebbe in questo senso sempre libero (si veda in “Desiderio e filosofia” pagg. 99 – 115).
Questa libertà non può essere ugualmente ben accolta da Heidegger (perlomeno non in “Sein und Zeit”) perché implica una temporalità fluente, errabonda verso un futuro di cui nulla si conosce e che è ancora solo postulato dal singolo individuo. Siamo nel dis-astro, dalle simboliche stelle siamo caduti nel Qui: se desiderando ci allontanassimo dalla realtà, ammonisce Heidegger, ci sarebbe dunque una caduta dal qui e ciò va assolutamente evitato, pena la perdita di autenticità dell’Essere stesso (mi riferisco soprattutto all’asserzione di Heidegger: “Ciò che C’E’ nel vagheggiare del desiderio diviene MONDO REALE”).
Indubbiamente non si può mai desiderare senza “contaminare” in un certo senso la realtà delle cose, tuttavia nessun desiderio può “aggredire” la cosa stessa per cambiarla in favore della nostra fantasia. A mio modesto avviso, il “vagheggiare” che violerebbe la differenza tra reale ed immaginario è attribuibile ad alcuni desideri, ma non a tutti: ciò che C’E’ nel vagheggiare del desiderio, infatti, diventa innanzitutto MONDO POTENZIALE.
Il desiderio dice: “Non voglio più stare Qui, voglio andare Altrove”.
Ogni desiderio è perciò un volontario esilio, non me ne vogliano Freud ed Heidegger, proprio dalla madrepatria e proprio dall’istante dell’Ora.
Sartre ci descrive magnificamente la Nausea che assale Antoine Roquentin quando scopre che intorno a lui “c’è presente, nient’altro che presente” e che lui stesso è solamente presente: “Come esistono forte – oggi – le cose!”. Un’unica temporalità non ci basta, il Qui e Ora non ci possono bastare: occorrono radici e desideri.
A proposito di radici: ancora non ho un’unica convinzione su quale sia la radice del desiderio. Mancanza o eccesso? Ascoltando Sartre il desiderio sembrerebbe nascere da una “mancanza di eccesso”, dal fatto che siamo insoddisfatti non a causa dell’assenza di una realtà in cui avventurarci, ma a causa della mancanza – in questa realtà – di quel “di più” che potrebbe darci sempre maggior soddisfazione. Forse c’è anche un “eccesso di mancanza”, se si pensa che finanche la cosa perduta (che ci manca secondo Freud) manca inevitabilmente di qualcosa e per questo non sarà mai desiderata così come era: il “di più” che la cosa perduta non ha è proprio il fatto che è una cosa che si è persa, manca la sua permanenza e questo è un carattere direi essenziale per i nostri oscuri oggetti del desiderio.
Il limite è connaturato al mondo quanto a noi, solo che noi (“Ma noi chi?” direbbe Derrida) consideriamo di poterlo “aggirare” facilmente così come ci riesce in sogno o come ci piace pensare quando desideriamo profondamente qualcosa. Il “così dovrebbe essere” è volontà di potenza, ma è anche espressione di una potenza di volontà: voglio potere e posso volere…e se posso volere, voglio di più! Molto, troppo umano come volere, come ha detto giustamente il mio collega.
Ciò che desideriamo è avere la possibilità di partecipare del paesaggio in cui siamo stati gettati e desideriamo farlo attraverso il nostro individuale pro-getto.
Accettiamo felicemente di fermarci a fissare le stelle, soprattutto – neanche a dirlo – se sono “cadenti” ed esprimendo – neanche a dirlo – desideri, ma a questa altezza, alla nostra altezza, non possiamo accettare fermate sul tram chiamato desiderio.
By: Elena Battista on 2 novembre 2009
at 21:34
Nel leggere l’intervento – a mio avviso bellissimo – della collega, è sorta in me la preoccupazione che qualcuno potesse aver equivocato il mio pensiero. Nel mio intervento scrivevo: “E se il desiderare fosse considerato come il moto dell’intelletto che introduce la temporalità nell’umano?”. Si tratta di un’ipotesi certamente altisonante, ma che va letta essenzialmente come una provocazione. Non come una verità ontologica sull’essere delle cose. Non come una considerazione sul tempo in sé. Ma, più che altro, come una chiave interpretativa (o, se preferite, come una prospettiva). E’ la frase di un cieco che cerca la sua strada proseguendo a tentoni. Sta a significare: vediamo se ci riesce più semplice cogliere il quid del desiderio, se lo si mette a fuoco da quest’altra angolatura. E la temporalità che viene introdotta dal de-siderare, è la temporalità per l’uomo (si tratta insomma di una scintilla di consapevolezza che balugina nell’intelletto umano).
Fra le tante acute osservazioni, la collega ha fatto notare un particolare (tutt’altro che irrilevante) che mi era sfuggito. Si de-sidera insieme alle stelle. Si de-sidera mentre guardiamo una stella cadere (o, se preferite, de-stellarsi). A ben vedere, però, non si tratta di un fatto del tutto inconciliabile con la mia ipotesi. Quest’ultima si basa infatti sull’aprirsi del divenire a partire dalla fissità (o della temporalità a partire dall’eternità), il quale non viene affatto decostruito. Rimane anzi ciò che rende possibile un’interpretazione del de-siderare in chiave temporale: si de-sidera proprio nel momento della rottura dell’eternità. Nel tempo.
By: Riccardo Fraddosio on 5 novembre 2009
at 13:10
“La temporalità che viene introdotta dal de-siderare è la temporalità per l’uomo”.
Credo che il mio collega abbia ragione. La domanda “chi desidera?” forse non ha un’unica risposta, ma una potrebbe, anzi forse dovrebbe essere proprio: “un uomo”.
Con tutto ciò che quest’affermazione (e questa natura!) implica.
La sorgente umana troppo umana del desiderio non può che influenzare qualunque temporalità poi si decida di attribuire al desiderio in sè.
By: Elena Battista on 6 novembre 2009
at 01:10