Riccardo Fraddosio
La questione del senso della Storia. Karl Löwith e la critica al futurismo escatologico
Nel 1929, in “Was ist Metaphysik?” [Che cos’è la metafisica?], Martin Heidegger aveva indicato quella che a suo parere si configurava come una delle domande “prime in dignità” della filosofia: “perché è l’essente piuttosto che il nulla?”.[1] Tale quesito, nel quale si privilegia il problema del senso degli enti rispetto a quello della loro mera conoscenza, era stato già formulato da Leibniz nei “Principes de la nature et de la grâce” [Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione].[2] Tuttavia non era mai stato presente nelle riflessioni dei pensatori greci delle origini. Questi ultimi si erano limitati a scorgere l’armonia del cosmo, fondandola sulla presenza di un logos sempiterno al quale tutte le cose sono soggette. Il sorgere e il corrompersi degli enti erano imputati alle leggi di una natura perfetta e divina al tempo stesso (cosmoteologia); e il mondo, come una ruota che gira su se stessa senza mai arrestarsi, era considerato privo di uno scopo ad esso trascendente. Soltanto un eterno ricorso, in cui il risultato finale si riconnette al suo principio.
La domanda sul senso degli enti, al contrario, presuppone l’idea della creazione ex nihilo e si muove all’interno della tradizione giudaico-cristiana; perché essa possa essere formulata, infatti, è necessario che ogni essente sia stato posto in questione e sormontato dal non mero essente, come nulla dell’essente. Questa, almeno, era l’opinione di Karl Löwith, uno dei primi allievi di Heidegger nonché il suo critico più acuto. Come si legge in “Heidegger Denker in dürftiger Zeit” [Saggi su Heidegger], ciò che fonda de facto la celebre domanda leibniziana “è la storia biblica della creazione, per la quale l’essente, creato nella sua totalità dal nulla, potrebbe anche non essere”.[3] Solo se si possiede una fede pre-filosofica nella volontà di Dio, il quale avrebbe creato a partire dal nulla, è possibile conferire rilevanza assoluta al problema del senso: esclusivamente un Dio biblico, infatti, avrebbe potuto decidere diversamente mantenendo il nulla – nel quale, appunto, si estrinseca l’atto creativo – laddove invece c’è l’ens creatum. All’opposto, nel pensiero dei greci, la physis è ciò che è e non può essere diversamente.
Parmenide, il quale fu definito da Platone stesso “maestro venerando e temibile”, intende il nulla come un concetto impensabile e indicibile: il limite nullo dell’essere. Nel poema Sulla natura, la “dea benigna” di Parmenide descrive in tal modo il non essente: “Perché, quale nascimento ricercherai di esso [dell’essente]? Cresciuto come? Da dove? Né ti lascerò affermarlo dal non ente, e pensarlo neppure: ché non è affermabile né pensabile è ciò che non è. E quale occorrenza mai l’avrebbe spinto più tardi anzi che prima, principiando da niente, a nascere?”.[4] Da questo frammento emerge in modo perspicuo la distanza del pensiero greco dalla tradizione giudaico-cristiana, per la quale il non essere è una realtà autentica: una regione ontologica che rende possibile (o, se si preferisce, che apre lo spazio per) l’atto creativo.
Se si sposta la questione del senso dell’essente sul piano della storia dell’uomo, allora la domanda, per usare una categoria concettuale che Kant ha mutuato dalla teologia, assume una connotazione squisitamente religiosa: “Se Dio è onnipotente, perché nella storia dei popoli viene commesso il male radicale?”. O anche, meglio ancora: “Qual è il senso della sofferenza cui l’uomo è incessantemente sottoposto?” Sant’Agostino, a questa domanda, ha risposto icasticamente: “Il mondo è come un torchio, che spreme. Se tu sei morchia, vieni gettato via; se sei olio, vieni raccolto. Ma essere spremuti è inevitabile. Soltanto, osserva l’olio e la morchia. La spremitura ha luogo nel mondo: attraverso la fame, la guerra, l’indigenza, la carestia, il bisogno, la morte, la rapina, la cupidigia; queste sono le miserie dei poveri e le calamità degli stati: noi le sperimentiamo…Vi sono uomini che oppressi da queste calamità si lamentano e dicono: <come sono cattivi i tempi cristiani!>. Questa è la morchia, che defluisce dal torchio nei canali di scolo: il suo colore è nero, perché essi bestemmiano: non risplende. L’olio invece ha splendore. Poiché qui è un altro genere d’uomo che subisce la stessa pressione e torchiatura, la quale lo depura – non è stata infatti una torchiatura a raffinarlo così?”.[5]
La sofferenza degli uomini si trasforma così in un presupposto imprescindibile per la purificazione dello spirito: essa è, nolens volens, la modalità attraverso cui lo scrutatore di cuori seleziona le anime pie. In ultima istanza, perciò, si tratta di uno strumento del disegno divino, il quale prepara la realizzazione del regno dei cieli sotto la guida della provvidenza.
A parere di Löwith questo impianto concettuale è stato mantenuto, seppur in vesti secolarizzate, nel tessuto logico-argomentativo delle filosofie della storia.
Lo Hegel, nelle “Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte” [Lezioni sulla filosofia della storia], rintraccia negli interessi umani le sorgenti di tutto l’agire e il patire storico: “Se consideriamo questo spettacolo delle passioni ci poniamo innanzi agli occhi, nella storia, le conseguenze della loro violenza, della irragionevolezza che è connessa non solo ad esse, ma anche, e si potrebbe persino dire soprattutto, a quelle che sono le buone intenzioni, scopi giuridicamente legittimi; se guardiamo al male in ogni sua forma, al tramonto dei regimi più fiorenti che lo spirito umano abbia prodotto…non possiamo concludere se non nel compianto di questa universale transitorietà ed anzi – giacché questo tramontare è opera non solo della natura ma anche della volontà umana – nello sdegno dello spirito buono….per un simile spettacolo”.[6] Allo stesso modo un altro contemporaneo di Hegel, Johann Wolfgang von Goethe, si duole della violenza presente all’interno della storia. In una conversazione con lo storico Luden, egli dice: “E anche se voi foste in grado di interpretare ed esaminare tutte le fonti, che cosa trovereste? Niente altro che una grande verità, che è stata scoperta da gran tempo e di cui non occorre più cercare una conferma: che in ogni tempo e in ogni luogo la condizione umana è stata miserabile”.[7] Ma Goethe, nel suo rigoroso naturalismo, si limita a questa amara considerazione; al contrario, Hegel si affretta ad aggiungere che “da un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti così enormi sacrifici”.[8]
Secondo Karl Löwith, il passaggio dalla constatazione della sofferenza nella storia all’affermazione di una finalità ultima verso cui la storia sarebbe diretta – e che, a posteriori, giustificherebbe le umane vicissitudini – è del tutto arbitrario. Per quale ragione, si chiede il filosofo, non ci si dovrebbe fermare al semplice riscontro dell’eterno sorgere e corrompersi della vita? Perché, con Hegel, bisognerebbe spingerci a domandare per quale “scopo finale” siano stati compiuti questi immani sacrifici? A parere di Löwith questa domanda costituisce il movens decisivo per la costruzione di una teodicea secolarizzata, nella quale la provvidenza si trasmuta nell’astuzia della ragione, e il regno di Dio nella autorealizzazione dello Spirito mediante la presa di coscienza della sua libertà, ossia nel ritornare presso di sé nell’essere in altro. La hegeliana concezione della storia, spiega il filosofo, pur partendo da categorie concettuali di tipo teologico, opera tuttavia una radicale secolarizzazione di queste ultime, tanto da configurarsi come un monismo che fa tabula rasa del dualismo tradizionale fondato sulla dicotomia Spirito/Natura.[9]
Come spiega in “Sinn der Geschichte” [Il senso della storia], “il discorso sul senso della storia […] implica anche un senso nel significato di scopo o meta, a cui la storia tenderebbe nella totalità del suo moto. Se in ultima analisi la storia dell’umanità fosse un moto privo di meta, senza alcun fine, essa sarebbe – commisurata al senso ricercato – senza senso. Il discorso sulla mancanza di un senso, come quello sulla non esistenza di Dio, è ambiguo. Può significare che la storia non ha un senso; ma può anche avere uno scopo positivo, dal momento che ci siamo liberati dalla questione del senso e che ne siamo liberi perché non ci aspettiamo dalla storia che essa possa dare alla vita dell’uomo un senso che questa potrebbe anche, senza la storia, non avere o non trovare”.[10] Ciò che qui viene messo in questione non è il problema del significato di un determinato evento, bensì quella del senso complessivo della storia universale [Weltgeschichte]. Quest’ultima, oltre a connettere in un percorso unitario ed escatologico la totalità degli eventi storici, ha come finalità implicita l’individuazione del fine ultimo del movimento complessivo del tempo. Non è infatti un caso, argomenta Löwith, che anche nel lessico quotidiano i termini “fine”, “senso” e “scopo” si scambino di sovente e si usino come sinonimi. Se la storia viene intesa come l’insieme unitario della totalità dei fatti che hanno avuto luogo nel tempo, allora il senso di quest’ultima deve necessariamente essere concepito come il fine cui questi fatti conducono. Ed essendo la storia un movimento temporale, il telos di quest’ultima deve essere posto nel futuro. Perciò, conclude il filosofo, “la pienezza del senso è questione di un compimento che è nel futuro”.[11] Poste queste premesse, si può legittimamente affermare che la problematica del senso della storia sia strutturalmente escatologica. Solo mediante un credo quia absurdum di derivazione teologica, ossia tramite un atto di fede, è possibile dirsi convinti che il movimento del tempo sia diretto ineluttabilmente verso un fine predeterminato: quest’ultimo, infatti, si dovrebbe realizzare in un futuro di cui non sappiamo ancora nulla. Perciò, a parere di Löwith, “la dimensione temporale di una meta ultima è un futuro escatologico e il futuro per noi esiste soltanto in quanto aspettiamo qualcosa che non è ancora presente. Si sa di lui soltanto al modo dello sperare del credente”.[12] In ultima istanza, quando si postula che la storia conduce ineluttabilmente verso il regno della libertà (marxismo), verso un progresso indefinito (positivismo), o, in senso negativo, verso un ipotetico tramonto dell’occidente (Spengler) che si configura come un percorso escatologico ribaltato (o, se si vuole usare un’immagine più carica, di caduta dal giardino dell’Eden), non si formula una previsione razionale; al contrario, si afferma proprio quel che non si può conoscere: il futuro.
L’argomentazione di Löwith può sicuramente essere di profitto al dibattito sulla fine della Storia, un termine atto ad esprimere la complessità che abbiamo d’innanzi agli occhi. Essa, con Kojève, può essere teorizzata come l’eclissarsi del tempo storico in virtù della realizzazione del desiderio antropogeno di riconoscimento attraverso istituzioni politiche concrete. Può essere letta, con Queneau e contro il suo amico Bataille, il quale si contristava di essere “una negatività senza impiego” al crepuscolo della storia, come una piacevole e asettica “domenica della vita”. Oppure, con Sloterdijk, può essere concepita come il periodo del “primato cosciente degli scrupoli di fronte alle iniziative”; un nuovo modo di essere-nel-mondo [in-der-welt-sein], o, per usare un linguaggio più consono a Sloterdijk, di essere-in-situazioni, il quale segue al movimento storico della presa unilaterale del “puro fuori” da parte degli europei, e si chiude con l’instaurazione – o, forse sarebbe più confacente, l’installazione – dell’odierno sistema-mondo globalizzato.
Si potrebbe forse cogliere un ulteriore aspetto di questa realtà stratificata e multiforme, se la si pensasse come il luogo dell’imporsi del presente e della presenza in tutte le sue forme. In tal senso, una categoria che potrebbe indicare questo stadio dell’evoluzione del mondo umano è quella della saturazione. O, ancor più precisamente, quella della pienezza. Questa situazione di sovrabbondanza implica un movimento di erosione della linea temporale che dal passato si snoda verso il futuro, la quale adesso si curva e si chiude infine in un circolo – quel circolo che, in fondo, è l’eterno ritorno della classicità greca, il quale era stato richiamato sia da Löwith che da Kojève nelle loro ultime riflessioni (e in fondo, ancor prima, da Nietzsche).
Se l’inarrestabile movimento di estinzione del futuro è una delle modalità attraverso cui può essere letta la fine della Storia, allora il filosofare di Löwith può essere usato come patrimonio di idee all’interno di un dibattito sulla fase post-storica del mondo. Infatti proprio questo pensatore ha decostruito con rigore razionale ogni futurismo escatologico, un termine con il quale si intende designare ogni filosofia della storia che pone l’accento su un ipotetico fine cui dovrebbe condurre il percorso temporale. Posto che tale critica è rivolta verso l’idea di un futuro collettivo – il quale è stato il movens principale dell’alienazione dell’uomo nella storia e nei movimenti politici radicali – e non verso il ben delimitato futuro progettuale dei singoli uomini.
E’ mio parere, tuttavia, che sia necessario difendere Hegel con e contro Löwith. L’autore della “Phänomenologie des Geistes” [Fenomenologia dello Spirito], infatti, nel suo innalzare la storia ad oggetto d’indagine, rivolgeva lo sguardo al passato e al presente, essendo la filosofia intesa come “la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo”. Il futuro, perciò, rimaneva non tematizzato.
In realtà, come si legge in “Meaning in History” [Significato e fine della storia], la principale opera löwithiana della maturità, la critica del pensatore si estende al di là del futurismo d’impronta escatologica per rivolgersi a tutte le filosofie della storia stricto sensu. Con questa espressione, chiarisce l’autore, “si intende definire l’interpretazione sistematica della storia universale alla luce di un principio per cui tutti gli eventi storici e le loro conseguenze vengono posti in connessione e riferiti ad un significato ultimo. In questo senso la filosofia della storia dipende interamente dalla teologia, cioè dall’interpretazione teologica della storia come storia della salvezza”.[13] Come si legge anche nel curriculum vitae, redatto nel 1959 su suggerimento dell’amico Hans Georg Gadamer, “l’intento del libro Meaning in History […] era critico, nel senso che ne doveva risultare l’impossibilità di una filosofia della storia”.[14] Tale tentativo viene condotto mediante una rigorosa reductio ad unum: dalla trattazione del materialismo storico, della filosofia dello spirito assoluto, delle filosofie della storia illuministe si perviene, procedendo a ritroso, all’escatologia giudaico-cristiana. In tal modo Löwith intende mostrare la sostanziale fragilità del filosofare storico, il quale non si fonda su un atto di ragione ma, al contrario, su un credo quia absurdum di derivazione teologica.[15]
Poste queste premesse, bisogna però aggiungere che i veri obbiettivi polemici della dialettica löwithiana sono lo storicismo, l’analisi esistenziale heideggeriana e i movimenti politici radicali, quali, in primis, il marxismo e il nazismo (da cui era stato perseguitato a causa delle sue origini ebraiche).
Ciò emerge in modo molto chiaro dalla lettura del classico löwithiano “Von Hegel zu Nietzsche” [Da Hegel a Nietzsche][16], nel quale viene analizzato il rovesciamento del sistema dello spirito assoluto mediante la decostruzione posta in essere dalla sinistra hegeliana: il pensiero filosofico del XIX secolo, in questo saggio, è interpretato come un movimento di dissoluzione che dalla conciliazione di idea e realtà (Hegel) era sopraggiunto alla critica del mondo borghese-capitalistico (Marx) e del cristianesimo mondanizzato (Kierkegaard), finché “la filosofia dell’epoca storica”, tramite Nietzsche e la sua dottrina dell’eterno ritorno, non era trapassata nel “desiderio d’eternità”. In ultima istanza, il marxismo e l’esistenzialismo kierkegaardiano (a cui Löwith riconduce il filosofare di Heidegger) venivano fatti superare dalla riflessione nietzschiana, la quale, mediante la riformulazione della teoria classica dell’eterno ritorno dell’uguale, compiva una scelta radicale “contro Dio e per il mondo”. La messa in questione del mondo, a parere di Löwith, si configurerebbe perciò come il porto d’approdo della filosofia moderna.[17]
In “Von Hegel zu Nietzsche” viene tracciata una genealogia dello storicismo, del marxismo e delle ideologie attivistiche di matrice fascista, riconducendole sostanzialmente al processo di frammentazione del sistema dello spirito assoluto. Il punto di cesura fu il successo della decostruzione critica posta in essere dalla sinistra hegeliana. Quest’ultima aveva reso impossibile la conservazione del sistema dello spirito en bloc; ecco perché, secondo Löwith, alcuni epigoni di Hegel cercarono di trarre in salvo gli aspetti del sistema che secondo loro erano meno attaccabili, astraendoli arbitrariamente dal complesso della filosofia dello spirito. Scrive Löwith: “Il principio del rinnovamento di Hegel è stato formulato per la prima volta e in modo più chiaro da Benedetto Croce, con la distinzione nella filosofia hegeliana di una parte <morta> e di una parte <viva>. Morta è anzitutto la filosofia della natura, come anche la logica e la filosofia della religione; viva è invece la scienza dello spirito oggettivo, in quanto le sue pretese assolute e sistemiche possono risolversi in una visuale storica. Questa posizione, che nega nel suo complesso il sistema hegeliano, vale anche per il rinnovamento tedesco di Hegel”[18]. La filosofia hegeliana viene in tal modo segmentata nei suoi aspetti sostanziali, e finisce per scindersi in due approcci fondamentali: da un lato, quello dello storicismo; dall’altro, quello del futurismo storico. La doppia equazione della filosofia del diritto di Hegel, la quale affermava che “ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale”, viene disgiunta senza possibilità di riconciliazione. Quando – come avviene nel caso del marxismo e del futurismo attivistico in generale – si accentua la prima parte, allora la critica del presente è funzionale alla costruzione di un futuro dove realtà e ragione coincidono; se, invece, si adotta la seconda parte – il riferimento, in particolare, è allo storicismo di Dilthey – la filosofia dello spirito assoluto si trasforma nella Weltanshauung; in un mero “specchio del tempo”, che conferisce assolutezza proprio a ciò che è più relativo e transeunte: la storia.
Ciò che però ci interessa più da vicino è la messa in questione della nozione di post-storia. Posto, come accennato sopra, che quest’ultima viene qui letta come luogo dell’imporsi del presente e della presenza in tutte le sue forme, allora dovremo disinteressarci della polemica löwithiana con lo storicismo ed intrattenerci sulla sua critica al futurismo storico ed escatologico, in quanto essa pone le basi ideologiche della nostra società priva di futuro.
Futuriste stricto sensu sono tutte quelle filosofie di tipo teleologico che, oltre a concepire in modo unitario ed interconnesso la totalità dei fatti avvenuti nel tempo, postulano che la storia debba di necessità pervenire ad un fine posto nel futuro. Questo modo d’intendere il processo del tempo, come accennato sopra, nasce dalla dissoluzione della filosofia hegeliana. Secondo Löwith, infatti, “lo storicismo, fatto di ricordi e rivolto al passato di Hegel, si trasforma nei giovani hegeliani in un futurismo storico; essi non vogliono rappresentare soltanto un risultato della storia, ma fare essi stessi epoca ed essere quindi <storici>. Questo storicismo attivo dei giovani hegeliani si è mitigato in seguito alla reazione politica posteriore al decennio 1840-50, e lo storicismo da Haym sino a Dilthey si è accontentato di ridurre la metafisica hegeliana della storia dello spirito ad una <storia dello spirito> senza metafisica. Con la rivoluzione fascista, anche lo storicismo attivistico del decennio 1840-50 si è risvegliato a nuova vita”.[19]
Nel suo capolavoro “Meaning in History” [Significato e fine della storia], Löwith dedica un’ampia trattazione della filosofia marxista, la quale si conclude con questa chiosa: “Il materialismo storico è una storia della salvezza espressa con il linguaggio dell’economia politica”. La critica al pensiero marxiano svolge un ruolo centrale all’interno del saggio. Ciò avviene per due motivi: da un lato, rispetto alle altre filosofie “futuriste”, essa è la costruzione più coerente; dall’altro, questo pensiero aveva sedotto in modo non indifferente lo stesso Löwith negli anni successivi all’abilitazione alla libera docenza. Ad onta delle immagini suggestive che il filosofo usa allo scopo di perseguire tale proposito, la critica al marxismo può essere ricondotta allo schema logico di base, e che, in ultima istanza, risiede in questa domanda: come si può postulare che la storia sia necessariamente condotta verso il regno della libertà? In realtà, qualsivoglia futurismo escatologico si avvale di un impianto concettuale di tipo teologico, il quale risale all’Antico testamento – ossia all’afflato biblico che si identifica con l’attesa del messia da parte del popolo eletto.[20]
Nella modernità esistono due modi di porsi di fronte al movimento complessivo del tempo: il primo – e questo è il caso del marxismo – postula l’avvento di una fine salvifica; il secondo – come avviene nel progressismo tecno-scientifico – non ha più un telos cui rivolgere lo sguardo. A partire dalla caduta dell’Unione sovietica, cui è seguito il declino dei partiti comunisti europei, la retorica del progresso – la quale, in ultima istanza, si può far risalire alle filosofie positiviste dell’ottocento – assurge al ruolo di sovrastruttura ideologica delle società post-moderne. Quest’ultima, a differenza del marxismo, non si proietta verso un telos prestabilito; all’opposto essa si concepisce come un’evoluzione materiale verso un futuro indefinito. Se l’ideologia del progresso è la rappresentazione dominante dell’Occidente post-moderno, si può senza dubbio affermare che la storia, per quest’ultimo, sia divenuta senza senso – in quanto, de facto, ha perso la fiducia in un compimento finale. Ciò è dovuto al fatto che “il pensiero storico moderno […] elimina dalla sua concezione progressiva gli elementi cristiani della creazione e del compimento, mentre d’altro lato assimila dall’intuizione classica del mondo l’idea di un movimento infinito e continuo, privandolo della sua struttura temporale. Lo spirito moderno è indeciso se adeguarsi alla mentalità cristiana o a quella pagana”.[21] A parere di Löwith, tuttavia, “per essere congruente, la fiducia nella <continuità> della storia dovrebbe ritornare alla teoria classica di un movimento circolare, poiché soltanto presupponendo un movimento che non ha principio né fine la continuità è realmente dimostrabile. Infatti, è mai possibile immaginarsi la storia come un processo continuo nella forma di una progressione lineare, senza l’interruzione di un terminus ad quo e ad quem, cioè senza un principio e una fine?”.[22] Da questo passo, uno dei più significativi della produzione filosofica löwithiana, può essere tratta un’indicazione fondamentale: il pensatore par excellence della modernità post-storica è Nietzsche, il quale, nel suo <esperimento>, era pervenuto a teorizzare l’eterno ritorno di tutte le cose. Ciò, oltre a mostrare la continuità fra il pensiero löwithiano e quello nietzschiano[23], ci apre una prospettiva su cui indagare ulteriormente: se la storia è finita e se il presente, nella società post-storica, si allarga, si dilata in avanti e all’indietro incamerando memoria e prospettiva, allora l’uomo deve tornare al circolo. Si potrebbe persino concludere che l’uomo ha visto la linea laddove c’era il cerchio, dilatando il tempo per farlo corrispondere ai suoi scopi storici – scopi che ormai, nel mondo post-moderno, non hanno più ragion d’essere. Sull’esempio di Hegel dovremmo allora abbracciare la realtà ed esprimerla in concetti, senza mai ricusarla, e ragionale a partire dalla rappresentazione temporale più confacente al nostro mondo post-storico.
Tuttavia, non è questa l’intenzione che si vuole qui perseguire. Infatti il mondo post-storico è per definizione privo di conclusioni, le quali appartengono più alla linea che al circolo.
Alla fine della storia ci ridestiamo in un mondo senza senso – o, il che è lo stesso – in un mondo senza fine. Sfinito.
Mi piacerebbe però concludere con una suggestione non eurocentrica. Infatti come si può postulare il tramonto delle ideologie futuriste ed escatologiche, senza essere eurocentrici? Si sono veramente estinti tutti i futurismi storici?
Secondo Kwame Anthony Appiah, filosofo di origine ghanese, esiste ancora un movimento internazionalista, futurista stricto sensu ed escatologico. Appiah descrive così i giovani militanti che lo compongono: “Credono in una dignità umana che superi le barriere nazionali e mettono in pratica il loro credo. Condividono questi ideali con persone di molti paesi che parlano lingue diverse, una confraternita di fratelli e sorelle, e sfruttano – da autentici globalisti – tutte le potenzialità del web. Rifiutano il consumismo ottuso della civiltà occidentale e criticano la sua crescente influenza sul resto del mondo. Tuttavia non accettano neanche il nazionalismo gretto dei paesi in cui sono nati. Non andrebbero mai in guerra per un paese, ma si arruolano in una campagna contro ogni paese che ostacoli la giustizia universale […] A volte, nelle loro discussioni, si chiedono se saranno capaci di rovesciare la situazione, di sconfiggere i mali del mondo, o se la loro lotta sia senza speranza. Ma insistono nel loro sforzo militante di rendere il mondo un posto migliore […] Non sono gli eredi dei Cinici cosmopoliti […] non stanno costruendo un polis ma ciò che chiamano ummah, la comunità dei fedeli, aperta a tutti coloro che condividono la loro fede. Sono i giovani fondamentalisti musulmani globali; sono il campo di reclutamento da cui Al-Quaeda trae i suoi proseliti” .[24]
[1] Martin Heidegger. “Was ist Metaphysik?”. Ed. it. “Che cos’ la metafisica?”, Adelphi, Milano, 2001.
[2] Gottfried Wilhelm Leibniz. “Principes de la nature et de la grâce”. Ed. it. “Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione”, Liviana editrice, Padova, 1966.
[3] Karl Löwith. “Heidegger Denker in dürftiger Zeit”. Ed. it. “Saggi su Heidegger”, Einaudi, Torino, 1966.
[4] H. Diels e W. Kranz. “Die Fragmente der Vorsokratiker”. Ed. it. “I presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle”, RCS libri, Milano, 2008.
[5] Agostino. “Sermones”, XXIV, 11, in Karl Löwith, “Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History”. Ed. it. “Significato e fine della storia”, Il Saggiatore, Milano, 2004.
[6] Georg Wilhelm Fiedrich Hegel. “Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte”. Ed. It. “Lezioni sulla filosofia della storia”, Laterza, Bari-Roma, 2010.
[7] “Goethe Gespräche”, nella “Gesamtausgabe” a cura di F. von Biedermann, in Karl Löwith, “Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History”. Ed. it. “Significato e fine della storia”, Il Saggiatore, Milano, 2004.
[8] Georg Wilhelm Fiedrich Hegel. “Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte”. Ed. It. “Lezioni sulla filosofia della storia”, Laterza, Bari-Roma, 2010.
[9] Per un approfondimento dell’analisi löwithiana dei presupposti teologici della filosofia hegeliana dello spirito rimando al III capitolo di “Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History”. Ed. it. “Significato e fine della storia”, Il Saggiatore, Milano, 2004. Consiglio, inoltre, la lettura del saggio “Von Hegel zu Nietzsche. Der rivolutionäre Bruch im Denken des 19. Jahrhunderts. Marx und Kierkegaard”. Ed it. “Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX”, Einaudi, Torino, 2000.
[10] Karl Löwith. “Sinn der Geschichte”. Ed. it. “Il senso della storia”, in “Storia e fede”, Laterza, Bari-Roma, 2000.
[11] Ibid.
[12] Ibid.
[13] Karl Löwith, “Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History”. Ed. it. “Significato e fine della storia”, Il Saggiatore, Milano, 2004.
[14] Karl Löwith. “Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933”. Ed. it. “La mia vita in Germania prima e dopo il 1933”, Il Saggiatore, Milano, 1988.
[15] Per trovare la giustificazione filosofica di un progetto tanto ambizioso sarebbe necessario analizzare la ricezione löwithiana delle opere di Nietzsche. E’ mio parere, infatti, che il quid iuris di questo tentativo risieda nell’accettazione del celebre annuncio della morte di Dio, profuso nell’aforisma 125 della “Die fröhliche Wissenschaft”. Se si concepisce il Rinascimento il punto d’inizio della modernità, e lo si intende, con Burckhardt, come il momento della “scoperta del mondo e dell’uomo”, allora appare irreversibile il processo di erosione del sostrato teologico-metafisico della tradizione occidentale. Se ci si appoggia alla storia delle scienze, in particolare, si possono riscontrare tre tappe significative di questo movimento di consunzione: lo sfondamento dell’universo aristotelico-tolemaico mediante la rivoluzione copernicana, cui segue la teoria bruniana dell’infinito universo in atto; il reinserimento dell’uomo nella physis attraverso la dimostrazione darwiniana della sua filiazione dalle scimmie antropomorfe; la detronizzazione dell’io cosciente (che pure è stato il punto di Archimede della teoresi da Cartesio ad Husserl) posta in essere dalla psicoanalisi freudiana, e che si potrebbe forse compendiare nell’espressione Je est un autre, coniata da Rimbaud nel 1871 in quella che è stata poi definita la lettera del veggente. Se viene posta come presa di coscienza universale l’eclissarsi della tradizione teologico-metafisica dell’Occidente, allora l’utilizzo di un impianto categoriale di derivazione teologica deve essere considerato illegittimo.
[16] Karl Löwith. “Von Hegel zu Nietzsche. Der rivolutionäre Bruch im Denken des 19. Jahrhunderts. Marx und Kierkegaard”. Ed it. “Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX”, Einaudi, Torino, 2000.
[17] Ciò è comprovato anche dal curriculum vitae del 1959, laddove si legge: “Il mio curriculum ideale […] mi ha portato dall’analisi del mondo del nostro prossimo, attraverso il mondo della società borghese e la storia da Hegel a Nietzsche, la cui “nuova interpretazione del mondo” culmina nella “dottrina dell’eterno ritorno”, fino alla storia universale nella sua filiazione dalla storia della salvezza, e infine al problema del mondo in quanto tale […] Con questo che per noi è un problema ultimo mentre in realtà è in sé il primo problema, siamo giunti, alla fine, di nuovo là dove la filosofia greca cominciò” (Karl Löwith. “Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933”. Ed. it. “La mia vita in Germania prima e dopo il 1933”, Il Saggiatore, Milano, 1988).
[18] Ibid.
[19] Ibid.
[20] Löwith riconduce il concetto di classe proletaria a quello di popolo eletto, il regno della libertà alla realizzazione del regno di Dio in terra, e l’idea di “sfruttamento” formulata tramite la teoria del plusvalore a quelle del male radicale e del peccato originale. Secondo il pensatore, cioè, il futurismo storico è di matrice sostanzialmente ebraica. “Per gli ebrei l’evento decisivo appartiene ancora al futuro, e l’attesa del messia divide tutto il tempo in un’epoca presente e in un epoca futura. Per il cristiano la linea di divisione della storia della salvezza non è un mero futurum, ma un perfectum praesens, cioè l’avvento già compiuto del Signore” (Karl Löwith, “Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History”. Ed. it. “Significato e fine della storia”, Il Saggiatore, Milano, 2004).
[21] Ibid.
[22] Ibid.
[23] In realtà l’influenza che la lettura delle opere nietzschiane ha esercitato sul filosofare di Löwith è del tutto evidente e non necessita di essere provato ulteriormente. Nella sua autobiografia il pensatore lascia intendere in modo perspicuo quanto la ricezione di Nietzsche, soprattutto in gioventù, abbia influenzato il suo pensiero e finanche la sua vita, inserendo “il fascino esaltante della <vita pericolosa> che Nietzsche ci aveva trasmesso” fra “i motivi che mi avevano spinto a dare il benvenuto alla guerra” [l’allusione è al primo conflitto mondiale, nell’ambito del quale Löwith combatté da volontario]. (“Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933”. Ed. it. “La mia vita in Germania prima e dopo il 1933”, Il Saggiatore, Milano, 1988). Spostandoci su un piano squisitamente teoretico, è d’uopo riscontrare come il confronto con il filosofo di Röcken non mancò neanche nel periodo della sua formazione universitaria, la quale culminò nel 1923 con una tesi su Nietzsche conseguita presso l’università di Monaco (Heidegger, essendo al tempo ancora un libero docente, non potette essere designato come relatore, e Löwith fu costretto a rivolgersi a Moritz Geiger). Gli studi giovanili su Nietzsche confluirono infine nel saggio pubblicato nel 1935, “Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen” (Ed. it. “Nietzsche e l’eterno ritorno”, Laterza, Bari-Roma, 2003), nel quale Löwith si distanziava criticamente dal pensatore pur evidenziando gli aspetti più fecondi delle sue riflessioni. Da ultimo, si noti come anche una delle opere più significative della maturità, Von Hegel zu Nietzsche, dedichi ampie pagine all’analisi dell’<esperimento> nietzschiano.
[24] Kwame Anthony Appiah. “Cosmopolitanism. Ethics in a World of Strangers”. Ed. It. “Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei”, Laterza, Bari-Roma, 2006
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