Pubblicato da: luciano de fiore | 24 ottobre 2009

Il desiderio per i Greci

58195057Il greco ha molte parole per dire desiderio. Il che complica e arricchisce al contempo il nostro campo. Le più importanti sono epithumìa, orexis, hormé. Hanno connotazioni diverse, e danno un’idea della complessità del desiderare.
L’epithumìa sembra connotarsi come desiderio in quanto passione; ha la radice nel thymos, rispetto al quale sta – per così dire – un gradino sotto. In latino è resa con concupiscentia. Per gli Stoici è una delle quattro passioni cardinali e nel suo articolarsi in sette sotto-passioni comprende sia amore (eros), sia odio (misos), sia – con un capovolgimento dell’etimologia di partenza – l’ira (thymos) ed il risentimento (menis). Nel blog dello scorso anno (http://passionipoststoria.com) è esposta la storia del concetto, a partire dall’ira di Achille (promossa proprio dal θυμός), fino alle banche attuali che ne capitalizzano la valenza politica e sociale.
Nell’universo sentimentale stoico, quindi, il desiderio è passione fondamentale che dà origine e impulso alle passioni più importanti.

Platone

La tematica del desiderare si è imposta definitivamente nella filosofia greca grazie a Platone. Sono diversi i dialoghi nei quali il tema assume un ruolo importante, ma è nel Fedro che diviene uno dei punti centrali. Per comprendere però le caratteristiche che vi assume il concetto, bisogna chiarire alcuni aspetti.
La parola greca usatapiù spesso da Platone e generalmente tradotta con desiderio è έπιθυμία. Essa deriva dal verbo έπιθυμέω, nella cui radice è appunto θυμός. Nel blog dello scorso anno (http://passionipoststoria.com) troverete esposta nel dettaglio la storia del concetto, a partire dall’ira di Achille (promossa proprio dal θυμός), fino alle banche attuali che ne capitalizzano la valenza politica e sociale.
Quel che è rilevante è che la radice nel θυμός di έπιθυμία fa sì che essa non sia riconducibile tout court alla latina concupiscentia, come troppo si è fatto, soprattutto in ambito di esegesi biblica. La prova è proprio nel Fedro.
La questione del thymos trova la sua prima sistematizzazione nella dottrina platonica. Al mito narrato nel Fedro della biga alata e dell’auriga[1] è rimessa la prima significativa rappresentazione della natura umana, nella quale sia possibile individuare la funzione dell’aggressività e dell’ira nell’economia del comportamento umano.
Innanzitutto, il tema viene affrontato da Socrate nel suo secondo discorso dell’opera: è alle spalle già la considerazione dell’amore come manìa umana, come sentimento che cerca il piacere per se stesso. Qui si sta discutendo dell’amore in quanto sentimento divino, quello stesso di cui si discuterà con Diotima nel Simposio, l’amore insomma come tensione verso la conoscenza dell’essere.
È a questo punto (246 a-b) che viene introdotta la celebre immagine del carro alato, trainato da due cavalli, un bianco ed uno nero. Dice Socrate:

«Riguardo all’ immortalità dell’ anima si è detto abbastanza. Invece sull’idea di anima dobbiamo dire quanto segue: spiegare quale sia sarebbe compito di una esposizione divina in tutti i sensi e lunga, mentre dire a che cosa essa assomigli si addice a un’ esposizione umana e più breve. Parliamone dunque in questi termini. Si consideri l’anima simile alla potenza congiunta di una biga alata e di un auriga. Ebbene, mentre i cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti sia buoni in sé, sia di buona razza, gli altri sono misti. In noi l’auriga guida un carro a due cavalli: dei due cavalli in suo potere, uno è bello e buono e discende da cavalli che lo sono altrettanto, mentre l’ altro discende da cavalli che sono l’ opposto ed é lui stesso tutto l’opposto. Perciò fare l’auriga nel nostro caso è un compito necessariamente arduo e ingrato. Bisogna dunque cercare di dire in che senso l’essere vivente è stato chiamato mortale o immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che é inanimato e vaga per tutto il cielo, apparendo ora in una forma ora in un’altra. Quando dunque l’ anima è perfetta e dotata di ali, vola in alto e governa tutto il mondo ; mentre, quando ha perduto le ali, precipita fino a raggiungere qualcosa di solido e, stabilitasi lì, assume un corpo terreno che, a causa della forza dell’anima, sembra muoversi da sé».

Aristotele
Aristotele riprende in vari luoghi e sviluppa quest’intuizione di Platone. Nell’Etica Nicomachea (1, 1, 1094a), la sua attenzione si concentra sull’orexis, la facoltà di desiderare dell’uomo. Essa è una spinta essenziale per qualsiasi agire. Il soggetto umano ha la capacità di prendere coscienza dei propri desideri, come dei propri bisogni, e di scegliere di conseguenza: «Essendo tra le cose in nostro potere  ciò che è oggetto del desiderio su cui si è operata una scelta, anche la scelta (proairesis) sarà un desiderio deliberato riguardo a ciò che è in nostro potere»[1]. Le scelte, insomma, sono frutto di desideri consapevoli, ed esse stesse sono quindi desiderate: ci accorgiamo di desiderare qualcosa o qualcuno ed operiamo una scelta di conseguenza, il che è ancora un desiderio. In fondo, è una prefigurazione di quel concatenamento di desideri che abbiamo visto in Deleuze. Solo che qui il desiderio voluto, per dir così, segue al desiderio inconscio. Ma entrambi, impulso non ancora trasparente alla coscienza, e scelta (in quanto desiderio che si sceglie di perseguire) sembrano appartenere al campo del desiderare.
Anche nel trattato Sull’anima viene ribadito che «il desiderio (orexis) comprende al tempo stesso l’appetito (epithumia), l’impulso (thymos), la volontà (boulesis[2].
Da questo punto di vista – sostiene Dumoulié – la riflessione di Aristotele apre la strada ad un pensiero del desiderio considerato come potenza ed essenza dell’uomo, anticipando Spinoza. Al suo interno sono condensate le caratteristiche di fondo della motivazione, di ciò che chiama il soggetto a completarsi fuori di sé.


[1] Aristotele, Etica Nicomachea, III, 5, 1113°, 9-11.
[2] Aristotele, Sull’anima, 414b2.
[1] Platone, Fedro, 246 a – 249 b.

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Risposte

  1. […] comprende al tempo stesso l’appetito (epithumia), l’impulso (thymos), la volontà (boulesis)» [Sull’anima, 414b2]. Aristotele apre dunque la strada ad una considerazione del desiderio come potenza ed essenza […]


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