L’amico George è morto da cinque mesi. David ha ormai settant’anni. Ne sono trascorsi più di sei da quando la relazione con Consuela si è interrotta. E lei – la sera di San Silvestro, dell’ultimo dell’anno dell’ultimo anno del secolo e del millennio – gli telefona, d’improvviso, chiedendogli un incontro. Per un attimo David pensa di non accettare (“Basta con queste aggressioni alla mia tranquillità!”), ma poi le apre. Consuela ha ormai trentadue anni, e non è meno ma più bella di una volta. In testa ha in testa un berretto che sembra un fez: «E lei mi sta dicendo: “Non ho più un capello. In ottobre mi hanno detto che avevo un cancro. Un cancro alla mammella”»[1]. David si fa raccontare, «e mentre parlava, per tutto il tempo, io pensavo, Proprio tu, con le tette più meravigliose del mondo». Roth non vuole ancora che il suo personaggio si stacchi dall’investimento parziale che fin dagli inizi aveva caratterizzato il suo rapporto con la ragazza. O con il suo seno. Il narcisismo si soddisfa se il desiderio ha un oggetto, quindi se non è tale. Consuela sembra per un attimo assecondare l’immaturità del professore: gli chiede di toccarle il seno malato, palpandola lì dove ha il cancro, e proprio perché sa che lui adora i suoi seni. Ma ecco che la giovane cubana fa la richiesta spiazzante: «”David, posso chiederti un grosso favore?” – “Certo. Tutto quello che vuoi.” – “Ti spiacerebbe dire addio ai miei seni?” […] “E cosa devo fare per dirgli addio? Cosa vuoi? Cosa mi stai chiedendo, Consuela?”»[2]. Quel che lei vuole è che lui fotografi il suo seno com’è ora, prima della mastectomia. Resta a petto nudo, tenendo la gonna. Ed il desiderio parziale di David flette, vien meno: «Una donna con la sottana a petto nudo non è erotica, per me. […] I seni nudi con i calzoni sono erotici, ma sopra una sottana la cosa non funziona». Le scatta una trentina di foto. Poi la tasta di nuovo sotto l’ascella, ma non per sentire la mammella, ma quei due sassolini: il tumore.
A Chicago, intanto, entra l’anno nuovo. Davanti alla televisione accesa, i due assistono “all’eruzione internazionale del superficiale” che contraddistingue ovunque lo scoccare della mezzanotte: «Guardammo l’Anno Nuovo che arrivava sulla terra, assistemmo all’inutile isterismo di massa che accompagnò la celebrazione del millenario giorno di San Silvestro. Esplosioni di luce attraverso i fusi orari, e nessuna provocata da Bin Laden». Terribile, e impressionante, anche per il riferimento al capo di Al Qaeda qualche mese prima dell’attacco al World Trade Center[3]. David e Consuela si concedono una serata normale di un’epoca normale, nel normale delirio inscenato al Capodanno, amplificato per la fine del vecchio e l’entrata nel nuovo millennio: «Forse era proprio questo che festeggiavano tutti: che non era accaduto, non era mai accaduto, che il disastro della fine non arriverà mai più. Ogni disordine è disordine controllato trapunto d’intervalli riservati alla vendita di automobili. La Tv fa quanto le riesce meglio: il trionfo della banalizzazione sulla tragedia. […] Una notte di felicità umana per introdurre barbarism.com. Per accogliere degnamente la merda e il kitch del nuovo millennio. Una notte da dimenticare, non da ricordare».
Il Capodanno del nuovo millennio anticipa quel processo di de-realizzazione dell’orrore che avrà il suo culmine l’11 settembre dell’anno che sta entrando col crollo delle Torri senza morti (incrinato dalle poche immagini dei suicidi che si gettavano giù), più di duemila morti senza corpo, nel segno di una realtà deprivata della sua sostanza, con caffè decaffeinato, birra analcolica, la guerra senza guerra, crema senza grassi, il sesso virtuale senza sesso, la politica come amministrazione senza politica[4].
Tranne che sul divano dove David tiene abbracciata Consuela. Un luogo esente dalla spettacolarizzazione de-drammatizzata della post-storia, e dove invece si consuma l’ordinario, la tragedia di una ragazza trentaduenne con un carcinoma metastatico alla mammella: «Il passare del tempo. Ci siamo dentro, affondiamo nel tempo, fino al giorno in cui anneghiamo e ce ne andiamo. Questo avvenimento inesistente trasformato in un grande avvenimento mentre Consuela è qui che soffre per il più importante avvenimento della sua vita. Il Gran Finale, anche se nessuno sa che cosa sta finendo, se sta finendo qualcosa, e nessuno, certamente, sa che cosa sta per cominciare. Una sfrenata celebrazione di nessuno sa che cosa.
Solo Consuela sa, perché ora Consuela conosce la ferita dell’età. Invecchiare è una cosa immaginabile solo per chi diventa vecchio, ma per Consuela non è più così. […]. Oggi lei misura il tempo andando avanti, calcolandolo con quello strumento che è la vicinanza della morte»[5].
La fine non più così lontana la spaventa terribilmente e David non sa come consolarla, perché “in ogni persona calma e ragionevole si nasconde un’altra persona che ha una paura matta della morte”. Condivide con la ragazza tutto il dolore e il peso della tristezza per tutto ciò che lei aveva già perso e per quello che si accingeva a perdere: «tutto questo era così grande che, per cinque minuti buoni, Consuela perse ogni controllo. Io vidi, concretamente, il terrore che provava il suo corpo»[6].
Nella notte spartiacque tra i due millenni, Kepesh si consente di pensare in termini emotivi. La sua ragione è infine appassionata. Aiutando Consuela ad affrontare le proprie angosce di morire di tumore, viene a contatto anche con la propria mortalità. L’anticipazione del lutto che insieme vivono è un lutto esteso a tutto il mondo che sembra dimentico degli orrori del secolo che si chiude, di Hiroshima e dell’Olocausto e che pare catapultarsi verso una nuova apocalisse.
Poi Consuela va via. Non prima di avergli detto che lo avrebbe avvertito quando fosse stata operata.
Il sesso non c’è più. O meglio, c’è infine il rapporto sessuale, c’è la relazione tra due persone, mediata anche dalla sessualità. C’è ora che per entrambi il desiderio non ha oggetto parziale, mentre albeggia il desiderio dell’altro (sia pure con l’a minuscola cara a Lacan). Dell’altra persona, di chi può aver cura di noi ed al quale desideriamo dare la nostra cura. Consuela che telefona a David in quella notte assurda e d’incipiente solitudine e David capace, vincendo infine la riluttanza a compromettersi sentimentalmente, a rispondere a quella chiamata, a disporsi in attesa ed in ascolto.
È probabilmente un modo per comprendere da vicino uno dei significati della frase lacaniana “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”. Qui sia David sia Consuela si desiderano nella misura in cui sentono, fanno esperienza dell’Altro come desiderante, sia pure «come il luogo di un insondabile desiderio, quasi un desiderio opaco scaturisse da lui. Non solo l’altro m’indirizza un desiderio enigmatico, ma fa sì che io affronti l’enigma del mio desiderio, ossia il fatto che io stesso non sappia cosa desidero realmente»[7]. Ne avevamo visto un esempio ad inizio corso, nell’indecisione di Nietzsche che desidera Lou Salomé con molte delle sue forze, ma che per un altro verso ha ritrosie e barriere che fanno sì che desideri che la giovane russa si allontani da lui.
Passano tre settimane, le ultime del racconto. David aspetta la telefonata, ma non la cerca. È ossessionato dal ricordo della ragazza sconvolta e tende ad associarlo ad un quadro di Stanley Spencer esposto alla Tate Gallery, un doppio ritratto di Spencer e la moglie, nudi, di mezz’età. Due corpi nudi che non hanno più nulla di giovane e di attraente. Nessuno dei due sembra felice. Grondano di un passato greve. «Sull’orlo di un tavolo, in primo piano, ci sono due pezzi di carne, un grosso cosciotto di agnello e una braciolina. La carne cruda è resa con fisiologica meticolosità, con lo stesso spietato candore dei seni cascanti e del cazzo flaccido e ciondolante, raffigurati solo a qualche centimetro da quel cibo crudo. È un po’ come guardare attraverso la vetrina di una macelleria, non la carne, ma l’anatomia sessuale di quella coppia di sposi. Ogni volta che penso a Consuela vedo quel cosciotto d’agnello che sembra una clava primitiva vicino ai corpi platealmente esibiti di questo marito e di questa moglie».
Kepesh si riferisce ad un quadro ad olio del 1937, dipinto da Sir Stanley Spencer[8], dove fortissima è l’influenza espressionista, diremmo di Otto Dix in particolare. Anche se il coscio di agnello in primo piano sembra anticipare i tocchi di carne sanguinolenti di Francis Bacon. Quella carne macellata gli evoca il seno che sarà asportato alla ragazza.
Per la seconda volta nel romanzo, Roth ricorre ad un dipinto: dopo il Grande nudo disteso di Modigliani è ora il turno della tela di Spencer[9]. Il ricorso all’immagine (mediata comunque dalla memoria) come medium per comunicare il trauma, quasi che le parole non fossero sufficienti. Il bisogno di esprimere visivamente la perdita: della gioventù e della serenità, nel caso della grande tela di Spencer, della salute ed ancora dell’illusione di eternità nelle fotografie di Consuela.
Il parallelismo agli inizi del racconto tra il grande nudo di Modigliani e Consuela, definito suo alter ego, era almeno in apparenza rassicurante, evocando tutta la bellezza la femminilità l’erotismo ed il mistero del corpo nudo della giovane cubana. Un corpo che, nel quadro, sembra rispondere a quanto scrive Nancy: «Il corpo nudo non è aperto: né ferito, né operato, né dissezionato. Non dà accesso a nient’altro che a sé. Non invita a frugare alla ricerca di energie segrete o di fonti nascoste. E’ esso stesso segreto e nascosto, ostentatamente nascosto e misteriosamente sottratto allo sguardo al quale si offre nudo»[10].
Il panno di velluto nero sul quale la donna è adagiata, e ancor più i suoi occhi chiusi, già introducono però il pensiero del limite e della morte nell’immaginario di Kepesh. E’ un corpo che si sottrae, come ogni corpo, al possesso di David. È un corpo che lui propriamente non vede neppure fino in fondo, non coglie nella sua interezza umana, ma che disseziona, e quindi appunto non vede nudo, ma piuttosto osserva, come quando si va dal medico per un esame clinico.
Tra i due quadri, c’è la richiesta di Consuela di farsi fotografare a seno nudo, di documentare e lasciare testimonianza visiva del proprio corpo intatto e tuttavia oltraggiato in potenza dalla malattia. Un esempio di quella epochè rispetto al tempo, alla memoria ed alla morte che è la fotografia analogica, secondo Roland Barthes. Per la proprietà dell’immagine fotografica analogica – asseriva André Bazin, uno dei fondatori dei “Cahiers du cinéma”, padre della Nouvelle Vague – di rendere la realtà secondo l’obiettività dell’obiettivo, catturando quello che Barthes definiva lo “è stato”, il noema della foto[11]: ciò che è stato colto sulla pellicola e che è realmente stato. Barthes definiva anche spectrum questo immagine-oggetto impressa sulla carta fotosensibile. È dunque uno spettro la fotografia, capace di generare un effetto fantomale; la foto mi tocca, ma io non posso toccarla a mia volta: «ecco ciò che ha di singolare questo “tatto”: ciò mi tocca, sono toccato, ma non posso toccare. Non posso essere “toccato-toccante”»[12].
David fotografa Consuela. Un uomo vestito che osserva un corpo femminile denudato: ma qui il rituale sado-masochista, tipicamente richiamato dalla situazione, non ha luogo. La fotografia erotica qui viene introdotta non per il piacere dell’occhio di chi osserva, ma del soggetto ritratto: è Consuela che chiede la possibilità di rivedersi un giorno com’era, è una donna che chiede di essere fotografata per il proprio “piacere”, non per il piacere dell’altro.
Più in generale, si direbbe che in questi anni l’immagine artistica si opponga anche alla de-realizzazione del reale, caricandosi degli elementi mostruosi dei quali la realtà viene espunta: viene da pensare alle opere di Matthew Barney o all’estremismo narcisistico di Orlan, nel quale l’orrore si sposa all’indistinto, di per sé perturbante. C’è infatti chi sostiene che la categoria principale dell’estetica contemporanea sia il disgusto: l’incontro col reale – ciò che è estraneo al linguaggio e alla dimensione simbolica, ciò che si sottrae per la propria opaca irriducibilità alla riflessione – genera angoscia e trauma. È disgustoso ciò che si oppone e resiste rispetto al passare del tempo, il surplus di vita, «la vitalità organica esagerata e abnorme che si dilata e propaga oltre ogni suo limite e oltre ogni forma. […]. Disgustosa non è la vita in sé, ma la sua ostinazione a restare là dove dovrebbe arrendersi e cessare»[13].
L’immagine di Consuela che David interiorizza resta comunque nel solco del primato della vita, sia pure mediata da un’estetica del disgusto, da considerarsi però (Perniola) come punto di arrivo del vitalismo di quel Novecento che quella notte chiude. La grande tela di Spencer con la coppia nuda dice di quella vita impregnata di morte che continua con accanimento la sua lotta contro la forma, una vita disperata e rabbiosa alla quale anche la ragazza cubana si appella.
L’olio dell’artista inglese esprime per l’appunto la perdita, il peso degli anni e la decadenza del corpo e il nostro totale appartenergli. Kepesh vede infine il corpo di Consuela nei corpi segnati del quadro di Spencer, lo vede nella sua unità grazie al suo desiderio di lei: «Questa unità gli [al corpo nudo] viene come sua immagine. Non gli appartiene, gli deve venire da uno sguardo il cui desiderio si indirizza alla supposizione di unità che cela la seduzione, vale a dire il movimento che si profila nello sguardo, il percorso delle zone, dei luoghi, delle soglie, e con esso il ritmo che sta nascendo. Il corpo che non è dato a sé, che non è in sé, incomincia a diventare per me che lo desidero»[14].
Il corpo di Consuela è del tutto strappato alla pornografia: è proprio il suo, di una giovane donna malata di cui David adesso sa tutto, cioè l’essenziale. Di cui non è padrone, ma dal quale lo sguardo desiderante viene attratto come dal più desiderato dei misteri, dal momento che il corpo nudo testimoniando «di questo accesso semplice alla presenza, […] testimonia anche del fatto che questa semplicità è ingannevole e fino a che punto l’accesso non solamente è complesso ed essenzialmente differito, ma quanto addirittura esso impedisca l’accesso. Non accediamo alla nudità: venendoci incontro, essa ci tiene a distanza»[15].
Mantenerla, questa distanza, o tentare di accorciarla; per quanto dipende da noi, aprirci all’altro? Squilla il telefono alle due di notte. È lei che lo chiama, terrorizzata dall’operazione imminente: «credi che dopo l’operazione un uomo amerà ancora il mio corpo? Ecco cosa mi chiede continuamente». A questo punto, siamo alle ultime righe della novella, David dialoga con l’anonimo interlocutore al quale ha fin qui raccontato la sua storia. Ma è come se dialogasse con se stesso, sono in effetti due funzioni del suo sé si confrontano sul da farsi: «Devo andare. Vuole che vada da lei. Vuole che io dorma da lei, nel suo letto. Non ha mangiato nulla in tutto il giorno. Deve mangiare. Bisogna nutrirla. Tu? Rimani, se vuoi. Se vuoi restare, se vuoi andare via… Guarda, non c’è tempo, devo scappare!
“Non farlo”.
Cosa?
“Non andare”.
Ma devo. Qualcuno deve stare con lei.
“Troverà qualcuno”.
È terrorizzata. Io vado.
“Pensaci. Rifletti. Perché se ci vai, sei finito»[16].
Il vecchio professore di desiderio avrà infine imparato la lezione? David Kepesh sembra un Portnoy invecchiato e arricchito dalle esperienze. Andrà o preferirà restar fedele al proprio disimpegno, al disinvestimento sentimentale che ha contraddistinto la sua economia erotica e tutti i suoi incontri prima degli ultimi mesi con la giovane cubana malata? Roth non lo dice, chiude lì il romanzo, sulla difficoltà di una scelta secca: se David andrà, sceglierà Consuela e ciò che la ragazza significa, cioè il limite, la morte, l’amore. Come scrive Frank Kelleter, «secondo Kleist, l’umana caduta dalla grazia non è accompagnata soltanto dalla nascita del “desiderio” (la volontà di riconquistare, per lo più attraverso il possesso o la creazione di un oggetto esterno, quel che è stato perso o che viene avvertito come mancante), ma inaugura anche la dolorosa certezza che il corpo del desiderio, non importa se lo s’intenda come un soggetto o un oggetto, è finito»[17].
[1] Philip Roth, L’animale morente, cit., pag. 93.
[2] Ivi, pag. 97.
[3] Il romanzo è stato pubblicato negli Stati Uniti il 18 maggio 2001, quasi 4 mesi prima dell’11 settembre.
[4] Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale (2002), Meltemi editore, Roma 2002, pag. 15 e segg.
[5] Philip Roth, L’animale morente, cit., pag. 108.
[6] Philip Roth, L’animale morente, cit., pag. 111.
[7] Slavoj Zizek, Leggere Lacan, cit., pag. 63.
[8] Sir Stanley Spencer, The Artist and His Second Wife (The Leg of Mutton nude), 1937, Londra, Tate Gallery. Peraltro, Spencer e Hilda, la sua seconda moglie raffigurata nel dipinto, morirono entrambi di cancro.
[9] Nell’ambito del Congresso 2008 dell’American Literature Association a San Francisco, si è tenuta una sessione su Philip Roth and the Visual Arts, nel corso della quale Stephanie Cherolis (Università di Urbana-Champagne, IL) ha dedicato il proprio intervento a Visual Expressions of Loss: The Dying Animal and a Contemporary Crisis in Representation. Della stessa studiosa, si veda anche The Pornography of Destruction: Performing Annihilation in The Dying Animal, in “Philip Roth Studies”, Volume 3, Number 1 / Spring 2007, pp. 44-55 e Philip Roth’s Pornographic Elegy: The Dying Animal as a Contemporary Meditation on Los, in “Philip Roth Studies”, Volume 2, Number 1 / Spring 2006, pp. 13-24.
[10] Jean-Luc Nancy, Indizi sul corpo, cit., pag. 126.
[11] Si veda di Roland Barthes, La camera chiara e di Jacques Derrida e Bernard Stiegler, Ecografie della televisione (1997), trad. it., Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, pag. 170 e segg.
[12] Jacques Derrida, Bernard Stiegler, Ecografie della televisione, cit., pag. 173. Sulla tematica del toccare il pensiero corre naturaliter allo scambio Derrida-Nancy.
[13] Mario Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000, pag. 9.
[14] Ivi, pag. 128.
[15] Jean-Luc Nancy, Indizi sul corpo, cit., pag. 134.
[16] Philip Roth, L’animale morente, cit., pag. 113.
[17] Frank Kelleter, Death, Ideology, and the Erotic in Sabbath’s Theater, in: Philip Roth, a cura di Harold Bloom, cit., pag. 164.
Chi è l’animale morente? E’ Kepesh, ma lo è pure Consuela. In realtà è anche la radice animale del Desiderio stesso che sta per essere sradicata da un corpo, il quale non ha forse più la forza di fargli da tramite e certamente non ha più davanti a sé un altro corpo parimenti disposto al gioco animalesco del sesso.
Per Consuela il rapporto (al limite del) pornografico non potrà più avere spazio, perché ogni spazio adesso è costretto dalla relazione con il suo corpo: il rapporto autoreferenziale per eccellenza, la relazione anatomica con la propria carne, che improvvisamente si fa sentire e fa in modo che sia avvertita solo la ferita, l’emicrania, lo spasmo, il dolore.
Il microcosmo di una stanza affollata, riempita, saturata da due persone – o meglio dai due destini che sempre li accompagnano. Eppure su quel divano sono irrimediabilmente soltanto in compagnia di loro stessi: è certamente vero che, aprendosi alla propria e all’altrui fragilità – osservandola e tastandola nei recessi dei corpi – e concedendosi un’emotività che prima non c’era, per un istante riescono finalmente a toccarsi in profondità, ma – ce lo dice lo stesso Roth / Kepesh – “tutto questo era così grande che, per cinque minuti buoni, Consuela perse ogni controllo. Io vidi, concretamente, il terrore che provava il suo corpo”. Cinque minuti e poi il terrore che, come il desiderio, passa da un corpo all’altro. Sopraggiunge il più faticoso dei concetti, diciamo con Hegel.
Era così grande la nuda vita, spogliata dalle vesti che loro le avevano messo, era così profondo il seno della vita, contenente ciò che è stato o mai fu, che entrambi si sono ormai rifugiati ognuno nel proprio corpo, nella propria memoria, in preda al terrore e ognuno è solo, è Uno, è il Suo.
Il professore di pulsioni, lasciato solo nel suo corpo, non può che ritrovarsi faccia a faccia con sé stesso, con la sua storia, con “l’intensità di ogni ultima grazia perduta” (p.27). Il peso di ogni ricordo. Forse le schiene si incurvano anche per questo.
“No, non c’è nulla che cambi la prospettiva” (p.95), perché la prospettiva è sempre stata quella: la vita ha sempre avuto un orizzonte, un limite, un confine. Solo non ci si voleva credere, solo non ci si voleva pensare, solo non si riusciva a ricordarlo perché c’erano desideri che facevano vertigine per ogni dove.
Non c’è più un corpo del desiderio, né il desiderio. Perché all’ammalarsi dell’uno, segue il perire dell’altro. Non ci sono più rivali da temere, ma c’è l’approssimarsi della morte: l’amante, il rivale invincibile che può sottrargli la persona desiderata o rapire lui stesso da lei sempre troppo presto.
Kepesh è malato di desiderio: questo significa che è ammalato da un solo desiderio, cioè ha fugato il peso dell’imprevedibilità dell’esistenza, comprendente soddisfazioni e successi ma anche privazioni e sconfitte, che si origina proprio dalla compresenza di più desideri sui quali si decide di rischiare. Ha disegnato uno spazio di azioni e reazioni estremamente limitato e racchiuso nel Tra, nel seno fra lui e Consuela. Una mania che dà origine ad un cosmo a parte, ad una dimensione creata dall’individuo per viverci “comodamente”: questi la abbandonerà difficilmente, giacché di questo spazio irreale ha potuto dettare tutte le regole, giacché si sono potute dettare delle regole – mentre là fuori regna l’improvvisazione dell’evento.
L’Evento – il Gran Finale – ha trovato tuttavia un varco per entrare a riprendersi Kepesh e, ormai, non è più possibile non pensare all’elefante.
Anche per questo sono assolutamente convinta che “L’animale morente” sia la trascrizione di un soliloquio che il protagonista ha con sé stesso, monologo-dialogo tra se e Sé.
Da una parte il Kepesh che ripercorre ciò che è stato, mentre l’altro Kepesh sta ancora vivendo l’epilogo di questo desiderio, senza rassegnarsi alla finitezza. Del desiderio, come di sé.
Lo stile sembrerebbe risentirne, ma io sono di tutt’altro parere. La scrittura sensuale di Roth, che ci corteggia abitualmente con meta – narrazioni e intertestualità, ci fa sperimentare ne “L’animale morente” una relazione con il testo scritto assolutamente seducente: la riga lasciata in bianco, la spaziatura tra un punto e una nuova maiuscola non è qui la scelta di uno scrittore che vuol far respirare un attimo i suoi lettori. Quel vuoto silenzioso è Kepesh che compie qualche azione ordinaria, come rispondere la telefono o bere un bicchiere d’acqua.
Come non riflettere sul fatto che le azioni scivolano via silenziosamente, senza lasciare traccia alcuna di sé, se non c’è qualcuno che le ricordi e decida di raccontarle?
By: Elena Battista on 11 dicembre 2009
at 23:01
L’animale morente è un racconto denso di riferimenti e spunti filosofici, una vera miniera cui vorrei attingere con una riflessione sul ruolo e la caratterizzazione dell’arte in questo testo. Prendo spunto dalla teoria estetica di George O’ Hearn, come Roth ce la presenta: per George è fondamentale il distacco, la “necessaria separazione estetica”; l’esperienza estetica non va mai sentimentalizzata. David Kepesh invece ha contravvenuto a questa regola. Perché? A mio avviso, per rispondere occorre fare riferimento a un altro passo del romanzo, che cito:
“[Consuela] è un’opera d’arte, arte classica, la bellezza nella sua forma classica, ma viva, viva, e la reazione estetica alla bellezza viva cos’è? Il desiderio” [corsivi miei].
Kepesh non può mantenere la separazione, perché Consuela è rappresentazione di un’arte viva, e a tale arte si reagisce con il desiderio; e il desiderio non consente la separazione estetica, perché ci coinvolge, in esso non possiamo mantenerci distaccati – come invece è possibile fare restando nella dimensione della pulsione, del piacere, nel senso in cui David ha improntato il suo comportamento con l’altro sesso prima di incontrare Consuela. Il desiderio non oppone un soggetto monolitico, integro ad un oggetto (o meglio, ad un soggetto-oggetto, qual è l’altro individuo considerato come mera fonte di piacere); il desiderio spezza, divide piuttosto il soggetto stesso, e forse è bene che sia così (seguendo Lacan, secondo il quale un soggetto non diviso è pazzo); occorre lasciare che l’alterità si introduca nel soggetto e lo divida, aprendolo a nuove dimensioni. Continuando l’analisi del passo citato, vorrei tornare sul concetto di arte viva: l’arte viva è l’arte che non pretende di fissare il tempo, proponendo così l’ideale della separazione estetica, ma al contrario è quella che è nel tempo, che accetta il peso della finitudine; e questa è l’arte del Novecento, ben rappresentata ad esempio dal dipinto di Spencer di cui ci parla Roth, dipinto che affronta il passare del tempo, lo testimonia con coraggio; è l’arte che “si oppone alla de-realizzazione del reale”, riportando sempre il nostro sguardo alla cruda, dura ma insuperabile realtà. Sulla scorta di queste considerazioni, mi sento di affermare che le foto di Consuela – quelle che la ragazza si fa scattare prima dell’operazione per rimuovere il cancro – non possono funzionare. Con quelle foto si tenta di immobilizzare il tempo, di promuovere l’illusione dell’eternità – ma non è possibile cristallizzare la bellezza viva, non è possibile sfuggire al tempo; occorre invece accettare la vita ed il tempo, “guardare nell’abisso con orgoglio” [Nietzsche, Così parlò Zarathustra], con coraggio, supportati dalla filosofia, come detto a lezione, ma, perché no, anche dall’arte.
Roth lascia il finale del suo romanzo in sospeso; ognuno di noi può immaginare come andrà a finire. Per parte mia, spero che David Kepesh, contro George O’ Hearn, abbia scelto di affrontare la finitudine e il tempo; spero che abbia scelto Consuela, e ciò che essa rappresenta: il desiderio, i sentimenti, l’amore, l’apertura del soggetto alla divisione.
By: Andrea Annese on 14 dicembre 2009
at 18:32