
Alexandre Kojève
Il 27 gennaio 1968 Jacques Derrida iniziava quella che forse è la sua conferenza più famosa, La différance, con queste parole: “Parlerò, dunque, di una lettera.”[1]
Pochi mesi dopo, a giugno, moriva Alexandre Kojève. Moriva dopo aver scritto una nota a quello che risulterà uno dei libri più importanti mai scritti su Hegel, e più controversi: l’Introduzione alla lettura di Hegel[2].
In realtà Kojève non lo scrisse. Il libro fu la raccolta delle lezioni che Kojève tenne all’École Pratique des Hautes Études tra il 1933 e il 1939, messa insieme da Raimond Quenau, suo allievo, diventato poi uno dei più grandi scrittori francesi, autore, fra gli altri, de I fiori blu e di Zazie nel metro. Kojève dette l’imprimatur, corresse le bozze, ed aggiunse delle note.
Una di queste note, o meglio, due di queste note, rappresentano probabilmente ciò che di più interessante il filosofo russo-francese abbia scritto. Ed è importante rilevare come siano state scritte appositamente da Kojève per l’edizione a stampa del suo lavoro su Hegel. Perché Kojève scriverà raramente per la pubblicazione a stampa. Scriverà quasi sempre per sé. Centinaia di pagine che non pubblicherà e che tutt’ora sono per lo più inedite, anche in Italia[3].
Il richiamo iniziale a Derrida è tutt’altro che estemporaneo. Innanzitutto perché a mio avviso tutta l’interpretazione derridiana di Hegel è filtrata dalla lettura di Kojève. In secondo luogo perché il filosofo franco-algerino ha sempre dato in tutta la sua opera un’importanza decisiva alla scrittura al margine, alla scrittura dei margini, ai margini della scrittura. Facendo anche abili decostruzioni dell’impianto testuale, scrivendo su due colonne, parallele, orizzontali, verticali. Dunque a partire da questo pensatore l’importanza data ad una nota può essere compresa ancor più adeguatamente. Da ultimo perché, proprio nel testo citato in apertura, che non a caso si intitola Margini, la conferenza La différance, viene immediatamente seguita da quella intitolata Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zeit[4].
Dunque è a partire dalla dignità filosofica di una nota e dalla sua rivendicazione che partiamo. Anche questa, come quella di Derrida, sarà una discussione su una nota dunque.
La nota in questione è quella a pagina 541 dell’edizione italiana dell’Introduzione.
Cercheremo di condurre un commentario fedele al testo, una glossa, una nota al margine (di una nota). Solo comprendendo appieno il concetto kojèviano di post-storia è possibile comprendere l’orizzonte entro cui si situano, ad esempio, Bataille e Lacan, pensatori cardine per comprendere l’ermeneutica e la fenomenologia del desiderio.
Siamo all’interno del VI corso, l’ultimo, quello del 1938-39. L’interpretazione che Kojève dà di Hegel è complessa, stratificata, articolata.
Kojève parla com’è noto della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. La sua interpretazione si basa su una particolarissima lettura del IV capitolo di questo testo decisivo per il pensiero filosofico occidentale, quello dedicato all’Autocoscienza. Kojève reinterpreterà tutta l’opera hegeliana a partire da questo capitolo, facendo un’operazione di “alta macelleria” filosofica, per usare una pregnante definizione di Antonio Gnoli. Ossia isolerà le tematiche di questo capitolo, o meglio, una tematica che ci interesserà da vicinissimo, e, alla luce di questa, stravolgerà l’intero impianto discorsivo hegeliano. Tutto verrà reinterpretato alla luce di un concetto presente nel IV capitolo della Fenomenologia: il concetto di riconoscimento. O, ancor meglio, di desiderio di riconoscimento.
Ricapitoliamo il percorso hegeliano, leggendolo “kojèvianamente”.
Nei capitoli iniziali della Fenomenologia dello spirito Hegel descrive il percorso della coscienza. Potremmo dire della percezione ingenua, quasi-animale del mondo. Quella che vede soggetto e oggetto come separati, un io che sta di fronte alle cose, che le guarda dal proprio punto di vista privato, e che le consuma.
Nel capitolo successivo a quelli in cui viene descritta da Hegel questa dinamica di rapporto al mondo di tipo “coscienziale” accade qualcosa di decisivo, secondo Kojève. Infatti qui il soggetto, che prima agiva in maniera del tutto simile a quella degli animali, ora prende coscienza di sé. Selbstbewusstsein dice Hegel, appunto. Comprende che la separazione soggetto/oggetto è del tutto illusoria, figlia di una visione ingenua del mondo. Capisce che ogni coscienza, anche quella dell’oggettualità, è coscienza di sé. È una rappresentazione di oggettualità, non un ente separato ed avulso dal soggetto.
Ma come giunge a questa comprensione? È qui il punto su cui le analisi di Kojève si imperniano ed inscrivono in modo così profondo da rendere quasi indistinguibile la lettera hegeliana dal commentario kojèviano.
L’essere umano si eleva dal proprio status animale attraverso una lotta a morte per il riconoscimento. Cosa si intende, per Hegel e Kojève, con quest’espressione?
Immaginiamo due esseri umani, in un’ipotetica “scena originaria”. L’uno di fronte all’altro. Ciò che li unisce, ci dicono il filosofo tedesco e quello russo-francese, non è l’interesse, l’amore, il bisogno, la curiosità. Ciò che unisce questi due proto-uomini è il desiderio.
Un desiderio forte, terribile, sradicante: una “passione triste”, per dirla con Remo Bodei e Baruch Spinoza. Il desiderio che li unisce infatti non è un desiderio qualsiasi, ma ha un preciso oggetto. Questo oggetto è il riconoscimento. Ciascuno dei due uomini, mentre guarda l’altro, desidera di essere riconosciuto, di essere stimato, come essere umano. Desidera che l’altro riconosca ciò che egli è, nella sua umanità. E lo vuole ferocemente. I due uomini si scontrano, si affrontano. Ognuno non è disposto a cedere sul suo proprio desiderio (Lacan, amico e allievo di Kojève, farà di questa frase, “Non bisogna cedere sul proprio desiderio”, uno degli asserti più importanti delle proprie teorie. Si presti attenzione, sul proprio desiderio e non al proprio desiderio).
A questo punto possono verificarsi tre condizioni. O uno dei due uccide l’altro, ed allora non c’è riconoscimento, perché un morto non può riconoscere nulla. O muoiono entrambi, e siamo nella stessa situazione. Oppure uno dei due vince, sottomette l’altro, o meglio, l’altro decide di sottomettersi, e diventa servo del primo.
Ci dicono Hegel e Kojève, che quando uno dei due si sottomette, e diventa Servo, lo fa perché, di fronte alla minaccia, al desiderio devastante dell’altro, ha paura. Trema. Teme per la propria vita. E considera la propria vita il valore più grande, da anteporre a tutto. Anche al proprio desiderio di essere riconosciuto. Ed in questo, per Hegel, non è ancora del tutto degno di essere riconosciuto umano. Perché troppo legato alla propria biologia. Mentre l’altro uomo, quello che ferocemente ha messo davanti a tutto il proprio desiderio, anche di fronte alla possibilità di perdere per questo la propria vita, è divenuto il Signore. Per designare Servo (Knecht: servo e non schiavo, è importante tenerlo a mente. Il servo è tale per un libero atto decisionale, lo schiavo ha perso la libertà per un atto di costrizione altrui, contro la propria volontà) e Signore (Herr) si usano le maiuscole perché queste, sia in Hegel che in Kojève, rappresentano figure archetipiche della storia dell’umanità. Dunque non un servo ed un signore qualsiasi. Neanche, a mio parere (ma contro, ad esempio una tradizione ben salda di studi hegeliani), servi e signori di un determinato periodo storico. Ma Servi e Signori paradigmatici, figure emblematiche della storia dell’umanità. Di ogni umanità, e di ogni soggetto umano.
Dunque un Signore, colui che ha messo il proprio desiderio di essere riconosciuto prima di tutto, e un Servo, colui che ha tremato di fronte alla morte, che ha ceduto sul proprio desiderio. Il Signore è il primo Uomo, con la “U” maiuscola, perché non è più un “animale della specie homo sapiens”, bensì un essere che è in grado di emanciparsi dalla propria contingenza biologica per un fine del tutto astratto, non-naturale. Per il puro prestigio dirà Hegel-Kojève.
Per questo, in Kojève, si parlerà di desiderio antropogeno: il desiderio è ciò che genera l’Uomo in quanto tale, che separerà l’umanità dall’animalità schiacciata dall’imperativo della conservazione biologica.
Il desiderio di essere riconosciuti, dunque, è il desiderio propriamente umano. Non solo, addirittura questo è il desiderio che crea l’uomo dall’animale che egli è, attaccato ai soli desideri (o meglio, dovremmo dire, bisogni) di oggetti determinati. Qui l’oggetto non è un ente determinato, ma un altro desiderio, non-oggetto per eccellenza, come abbiamo spesso visto durante il corso.
Secondo Hegel, però, in questo seguito da Marx e da Kojève, la Storia sarà dei Servi.
Il Servo sarà costretto a lavorare per il Signore. A trasformare il dato naturale per creare ciò che al Signore, suo padrone, è necessario. E facendo ciò, pian piano, imparerà a plasmare il mondo. A creare le cose che al Signore diverranno indispensabili, e che egli non sarà capace di produrre. Il Servo rovescerà il Signore, incapace di fare più nulla per affermare quell’umanità che gli aveva dato una posizione iniziale di preminenza.
La Storia, il Fare, con le maiuscole, proseguiranno, senza i Signori. I Servi si prenderanno il mondo, che, fattualmente, già appartiene loro. Ci sarà la Rivoluzione Francese. È questo l’evento cardine secondo l’interpretazione kojèviana di Hegel. La Rivoluzione, che crea soldati-cittadini che hanno fatto propria l’Idea di Libertà per la prima volta nella Storia, e che, con Napoleone, la esportano con le armi nel resto d’Europa, rappresentano per Hegel, secondo l’interpretazione kojèviana, l’inizio della fine della Storia.
In fondo, chi perde (cioè il Signore), perde perché resta ancorato alla dinamica dei bisogni. Chi vince (Il Servo ormai Signore di se stesso, perché conosce il proprio limite), dà vita ad una nuova dinamica, quella dei desideri: di un nuovo mondo, dove regni la libertà per ognuno. La dinamica dei bisogni è il vecchio, la dinamica dei desideri è il nuovo che avanza. Non nel senso che incede, ma nel senso che eccede: avanza eccedendo il dato, facendo spazio alla libertà ed al Saggio che la interpreta nella Storia fino alla Fine di questa. Cosa intendiamo con questa definizione?
Hegel è a Jena, sta finendo di scrivere la Fenomenologia. Sente i cannoni di Napoleone, che sta sbaragliando l’esercito prussiano. E capisce che quello è un momento epocale della storia dell’umanità. Un’idea, anzi L’Idea, quella della Libertà, si sta facendo largo, a colpi di baionetta e di cannone, per tutta l’Europa.
Per questo, vedendo, poco dopo, Napoleone cavalcare trionfante per le strade di Jena, Hegel potrà dire: “Oggi ho visto lo spirito del mondo a cavallo.”
Dopo quell’evento, vale a dire la prima incarnazione dell’Idea di Libertà nella Storia, la Storia propriamente detta non ha più nulla di nuovo da aggiungere. Passerà del tempo prima che quest’Idea si diffonda a quelle che Kojève chiamerà ironicamente le province dell’Impero, il resto del mondo e dell’umanità. Eppure l’Essenziale è stabilito, annunciato, ed in quest’annuncio, concluso. Ovviamente, in un impianto finalistico, da filosofia della storia, quale l’hegeliano.
L’Agire umano propriamente detto, il desiderio di riconoscimento applicato al genere umano, incarnato nell’Idea di Libertà, è compiuto. Nessun agire potrà cambiare più questa acquisizione. Perché nessun riconoscimento ulteriore può essere desiderato. Non c’è più nulla di antropogeno da desiderare.
Ed è qui la questione. Se scompare l’Unico Vero oggetto del desiderio, il riconoscimento, scompare anche il desiderio? È questo l’interrogativo che, prepotentemente, si pone a Kojève. Per comprenderne la portata andremo adesso a leggere, e a commentare, la nota [5] di Kojève, spiegandone ogni singolo capoverso.
[1] J. Derrida, Margini della filosofia, pp. 59-104
[2] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, op. cit., pp. 541-546. (Tutte le citazioni a seguire saranno tratte da questa nota).
[3] J. Derrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, p. 29
[4] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 1996
[5] Marco Filoni, autore dell’unica monografia su Kojève presente nel nostro paese, si sta occupando del lascito kojèviano, occupandosi di tradurre e curare le opere inedite del grande maestro russo-francese.
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