Pubblicato da: luciano de fiore | 5 novembre 2009

Desiderio dell’Altro

rope_w_knots_on_deckMa come sarebbe la nostra vita se il desiderio, rilanciato, vi riprendesse il suo posto ed il suo ruolo?
In questa nostra cultura che dà per scontata ogni libertà, risulterebbe fastidioso e quasi sconveniente considerarci ancora vincolati ad una robusta fune: il desiderio appunto, il Proteo dei sentimenti, la sartriana “passione inutile”. Desiderio che è sempre desiderio di altro e dell’altro, che ha sempre un complemento di specificazione. Specificazione che tuttavia non ne determina l’intensità, né ne esaurisce la portata. Se avesse come oggetto altro, occorrerebbe specificare quale oggetto. Infatti questo desiderio-di può essere inteso in modi diversi.
Secondo Jacques Lacan, «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro, in cui dell’ è la determinazione che i grammatici chiamano soggettiva, cioè che egli desidera in quanto Altro (ciò costituisce la vera portata della passione umana). Ecco perché la questione dell’Altro, che ritorna al soggetto dal posto dove questi ne attende un oracolo, nella formazione di un Che vuoi?, è quella che meglio lo conduce alla strada del proprio desiderio»[1].ver18renoir001f
Jacques Lacan negli anni Trenta frequentò il seminario di Alexandre Kojève all’École des Hautes Études di Parigi. Nel 1940 s’innamorò di Sylvia Maklès, moglie di Georges Bataille e nel ’41 ebbero una prima figlia, Judith. Sylvia era un’attrice nota, restata nella storia del cinema per la sua interpretazione in Une partie de campagne, di Jean Renoir (1936). Alla sceneggiatura aveva collaborato Jacques Prévert ed aiuto regista era Luchino Visconti.  Nel film recitò anche Georges Bataille, nei panni di uno studente seminarista – ruolo che del resto aveva avuto anche nella vita reale, e forse mai del tutto abbandonato. Com’è noto, il breve film racconta di una gita di due donne, una delle quali era Sylvia Bataille, insidiate da due giovani canottieri. Sylvia resisterà per un po’, per poi cedere alla seduzione ed al desiderio, in una scena memorabile di amore su di un isolotto, in un’atmosfera che ricorda da vicino la sensualità dei quadri del padre del regista, il grande Auguste Renoir.
La scena dell’amore tra Sylvia Bataille-Lacan ed il canottiere offre il destro per esplorare più da vicino il desiderio dell’Altro. Come Sylvia scopre, attraverso il desiderio dell’amante, il proprio, così il nostro desiderare passa per l’alterità. In sensi diversi.
Il nostro desiderio è dell’altro nel senso che desideriamo l’altro da noi, ciò che non ci appartiene già. Ma lo è anche nel senso che il desiderio appunto è dell’Altro: non siamo noi il soggetto desiderante, ma è l’Altro a desiderare, e questo Altro è quanto di più diverso e allo stesso prossimo abbiamo: l’inconscio e le sue funzioni. È lui a desiderare. È lui l’Altro, quello che Lacan scrive con la maiuscola, per distinguerlo dall’altro in quanto prossimo [2].
Nel soggetto si darebbe un Soggetto in grado di trascenderlo: il soggetto lacaniano è barrato ($) proprio perché è attraversato dal discorso dell’Altro. L’“Io è un altro, lo ‘Je est un Autre’” di Rimbaud vuol dire con Lacan che l’Io è anche Inconscio [3]. Un Inconscio dalle caratteristiche ultrapersonali, che incarna le logiche dell’Ordine costituito, del Potere, della struttura simbolica dell’uomo in quanto animale culturale. Ma nella potenza del Grande Altro si darebbe anche l’opposto delle logiche repressive: se le regole non scritte che governano la società sono nel segno della trasgressione al punto che questa diviene legge, allora anche l’Altro incarna l’eccesso. L’eccesso diventa legge, il Super Io parla con la logica dell’intemperanza.
ZizekSlavoj Žižek mette al centro di un suo saggio recente questa riflessione lacaniana. Per sostenere che ai nostri giorni si verifica un rovesciamento rispetto alle caratteristiche superegoiche classiche, freudiane: se prima l’individuo era costretto a reprimere il piacere e il godimento per rispondere ai limiti e ai divieti imposti dal sociale, il soggetto post-storico è al contrario condannato all’eccesso e a dover godere. Il super-io non solo impone divieti, ma anche imposizioni, ugualmente tiranniche, al godimento: «Niente costringe qualcuno a godere, tranne il super-io. Il super-io è l’imperativo del godimento -Godi!»[4].

Per cui il desiderio stesso diviene un’imposizione, vettore di un godimento obbligato, un paradossale dovere etico (Kant corretto con Sade): «La psicoanalisi deve rendersi conto che la vecchia situazione, nella quale la società è portatrice di divieti e l’inconscio di pulsioni sregolate, è oggigiorno invertita: è la società a essere edonista e sregolata, mentre è l’inconscio che regola»[5]. La lacaniana “legge del desiderio”, l’agire che ci dice di comportarci secondo il nostro desiderio, è l’unica cui dare ascolto senza indugi. Mi chiedo se non possa darsi uno scarto tra il desiderio che fa parte dell’ordine simbolico che ci impone di godere, e la nostra legge del desiderio, personale, alla quale dobbiamo rispondere responsabilmente, alla Sartre. Come si diceva tempo, viene proposta una terza via tra la censura ed il piacere obbligato, tutta a vantaggio dei nostri desideri “normali”. L’augurio dello psicoanalista-filosofo sloveno è che ci sia consentito di non godere: non che si sia vietato farlo, ma che almeno cessi di essere un dovere etico, parodiato dalla risate preregistrate degli spettacoli televisivi che ci sollevano dalla scelta se ridere o meno.

Il nostro desiderio è dell’altro nella misura in cui siamo portati a desiderare ciò che gli altri desiderano – mode, stili di vita, futuri: nella misura insomma in cui diviene desiderio mimetico (René Girard). Per cui, “la domanda originaria del desiderio non è direttamente: “Cosa voglio?”, ma: “Cosa vogliono gli altri da me? Cosa vedono in me? Cosa sono io per quegli altri?”[6].
Per un verso almeno, quindi, è il desiderio stesso a desiderarci, il che ci fa sentire attori e insieme passivi nel desiderare; e non tanto e non solo delle realtà che ci compongono: la nostra crescita, le nostre attese, le nostre speranze, ma anche di quel particolare desiderio alla seconda che è il desiderio di essere desiderati. Desiderare l’altro significa anche che il nostro massimo desiderio è incontrare-provocare il desiderio di un altro che ci desideri.

Il primo magistrale araldo di questo sentimento fu probabilmente Dante, capace come nessun altro prima di rappresentarci in un verso la forza di un amore che spinge ad amare a nostra volta. È stato Hegel però, nella Fenomenologia dello spirito, a dare sostanza riflessiva a quel sentimento, comprendendo quanto decisiva sia per la nostra vita il processo di riconoscimento reciproco. In cambio di esser riconosciuto per quell’uomo che sono, mi dispongo a cedere parte della mia libertà. Sono, in grazia dello sguardo dell’altro, dirà Sartre. Il servo rinuncia alla propria libertà, avendo compreso che il vero Signore, il Signore assoluto, è la morte. Lo pre-serva la sua paura, il sentimento tutto umano del timore del limite, del morire: in cambio di protezione, cede parte della propria libertà, rendendo però così dipendente dal proprio lavoro umile (da humus, terreno) il Cavaliere, il Signore che invece ha spregio della morte e combatte anch’egli per il proprio riconoscimento scegliendo però la strategia opposta, il confronto-scontro col suo simile, con chi come lui non ha paura di morire.
Sappiamo che l’autocoscienza del servo s’innalzerà al di sopra della gleba perché capace di tesaurizzare i due momenti: quello fondamentale del chinare il capo, della consapevolezza della non onnipotenza, e quello signorile di che è capace di guardare negli occhi la morte. Che sia il servo a progredire, secondo il ragionamento hegeliano, non deve far ritenere che siano solo servili le caratteristiche dell’uomo nuovo. C’è da tesaurizzare anche dalla figura del Cavaliere, capaci di esprimere quelle virtù e quei sentimenti timotici che probabilmente sono stati trascurati nella cultura alta del secondo Novecento, lasciandoli a torto appannaggio della destra mitizzante e retorica.
Entrambi, servo e signore – nonché la nuova figura che da loro scaturisce – sono pervasi da un inesauribile desiderio di essere desiderati, cioè riconosciuti, rispettati nel loro ruolo e nella loro sostanza spirituale. Di essere riconosciuti, nell’impianto teleologico hegeliano, come gli attori della Storia, i suoi protagonisti, gambe e forze della Libertà incedente. Per noi, convinti che quella dialettica si giochi anche e soprattutto sul piano intrapersonale, resta la lezione di una composizione funzionale della nostra autocoscienza, esito mai esausto di uno scambio/confronto tra una funzione signorile (libidica, assertiva, sprezzante della morte e quindi in fondo serva) e di una funzione servile (negativizzante, questionante, impaurita e quindi al fondo libera).
Ma oggi, oggi che quella grande Storia sembra finita, come si giustifica e cosa promuove ancora la dinamica del desiderio? Cosa e chi desideriamo? Da chi e perché desideriamo essere riconosciuti?
Vale ancora quel che diceva Kleist, secondo il quale la caduta umana dalla grazia non è accompagnata soltanto dalla nascita appunto del desiderio (la spinta a riguadagnare, principalmente attraverso il possesso o la creazione di un oggetto esteriore, ciò che è stato perduto o percepito come mancante), ma che essa inaugura altresì  la dolorosa certezza che il corpo del desiderio, non importa se lo s’intenda come un oggetto o come un soggetto, è finito – e da qui che la ricerca desiderante di una trascendenza fisica è infinita? [7]


[1] Jacques Lacan (1966), Soggetto e desiderio nell’inconscio freudiano, in Scritti, a cura di Giacomo B. Contri, Einaudi, Torino 1974 e 2002, vol. II, pag. 817.
[2] Ivi, in La direzione della cura, vol. II, pag. 623.
[3] Questo è il brano della cosiddetta “lettera del veggente” che Arthur Rimbaud invia a Georges Izambard, suo professore ed amico, il 13 maggio 1871: «Maintenant, je m’encrapule [m’intestardisco] le plus possible. Pourquoi ? Je veux être poète, et je travaille à me rendre Voyant : vous ne comprendrez pas du tout, et je ne saurais presque vous expliquer. Il s’agit d’arriver à l’inconnu par le dérèglement de tous les sens. Les souffrances sont énormes, mais il faut être fort, être né poète, et je me suis reconnu poète. Ce n’est pas du tout ma faute. C’est faux de dire : je pense : on devrait dire : On me pense. – Pardon du jeu de mots. Je est un autre. Tant pis pour le bois qui se trouve violon, et nargue aux inconscients, qui ergotent sur ce qu’ils ignorent tout à fait !».

[4] Jacques Lacan (1975), Il Seminario. Libro XX, Einaudi, Torino 1983, pag. 5.
[5] Slavoj Žižek, cit. da Mauro Carbone, L’insostenibile compiacenza del Super-io: Žižek su Lacan, in Slavoj Žižek (2006), Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pag. 14.
[6]
Slavoj Žižek (2006), Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pag. 69.
[7] Frank Kelleter, Death, Ideology, and the Erotic in Sabbath’s Theater, in Philip Roth, a cura di Harold Bloom, Chelsea House Publishers, Broomall 2003, pag. 164.

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Risposte

  1. DA PLATONE A ZIZECK: L’interpretazione intra-individuale della dialettica servo-padrone (Fenomenologia dello spirito; Hegel), mi spinge a tracciare un parallelismo non solo con il Fedro, ma anche – e soprattutto – con La Repubblica di Platone.

    Se ammettiamo che le figure del servo e del padrone corrispondano a due funzioni della medesima soggettività, e scorgiamo in Hegel un anticipatore di Freud e di Nietzsche (del loro scindere, appunto, l’individuo in una molteplicità di parti spesso in lotta fra loro), non possiamo non menzionare La Repubblica. Come lei ha ricordato, nella Fenomenologia dello spirito viene descritto lo scontro fra la parte servile e la parte signorile della soggettività. La lotta scaturisce dal desiderio (mi si passi la volgare semplificazione del concetto) di essere riconosciuto dall’Altro. Da questo confronto-scontro nasce l’autocoscienza. Ciò avviene in quanto essa è, in primo luogo, consapevolezza di una coscienza altra (ovvero della coscienza dell’altro). Lacan direbbe forse che è proprio in virtù dello “specchiarci” nell’immagine dell’Altro, che ci avviciniamo alla creazione di noi in quanto totalità funzionale. Cioè, in quanto in-dividui.

    Ma ritorniamo ad Hegel e alla dialettica servo-padrone. Nello scontro avviene che una delle due forze in lotta si sottomette all’altra. Il “servo” cede la propria libertà perché ha paura di morire e si sottomette al “padrone”. Dopo questo momento iniziale, tuttavia, è proprio la parte servile a prendere le redini della soggettività. Ciò avviene, come lei ha ricordato, perché quest’ultima riesce sintetizzare i due momenti: da un lato quello riflessivo e razionale (la rinuncia della libertà avviene proprio in virtù di una riflessione sulla morte); dall’altro, quello timotico e impulsivo. Ed ecco una prima domanda, sulla scia dell’interpretazione intra-individuale della dialettica servo-padrone: non si potrebbe dire che in questo passo, oltre a descrivere una tappa fondamentale della fenomenologia dello Spirito Assoluto, Hegel non abbia tracciato una genealogia della soggettività moderna?

    A ben vedere, un’individualità così strutturata è già presente nei dialoghi platonici (e Platone, in tal senso, è precursore di Freud e Nietzsche ancor prima di Hegel). Nel libro IV della Repubblica, il Socrate platonico postula l’esistenza di una molteplicità interna all’anima. Infatti – questa è la prova che Socrate fornisce al suo interlocutore Glaucone –, “se quando ha sete [riferito all’anima] c’è qualcosa che la tira in senso opposto, non ci sarà in lei un elemento diverso da quello che ha sete e che, come una bestia, la spinge a bere?”. Ed ecco una seconda domanda: Platone non sta forse parlando delle due funzioni della soggettività (o elementi dell’anima, per dirla con il filosofo greco), già richiamate nella dialettica servo-padrone? Io penso di sì. Anche qui, come nel Fedro da lei menzionato, Platone usa la parola “epithymia” per nominare questa parte dell’anima. E’ appunto l’espressione del desiderio in quanto passione.
    In quanto impulso.

    Abbiamo dunque due funzioni della soggettività: quella razionale (impaurita, servile, riflessiva), e quella timotica e irrazionale, che desidera sulla scia dell’impulso. Nel momento in cui la funzione servile (razionale) riesce a sottomettere la funzione signorile (timotica), si forma la soggettività tradizionale. Quella, appunto, che hanno ereditato Hegel e Freud. Il desiderare consapevole (o, se si preferisce, progettuale), che Aristotele ha così ben definito nell’Etica Nicomachea, nasce proprio dall’unione di queste due funzioni (razionale e timotica).

    A questo punto non è possibile non menzionare Freud. Nel pensatore della rivoluzione psicoanalitica, infatti, l’Io non è che il punto d’incontro di diverse funzioni soggettive, le quali non vengono mai in superficie. La nostra coscienza è descritta come un equilibrio precario sull’orlo dell’abisso dell’Altro – dove per “Altro”, in questo caso, si allude all’in-conscio. La coscienza è il risultato, indispensabile per il vivere sociale, della lotta fra due forze opposte: il Super-Io e l’Es. Anche in Freud, quindi, sono teorizzate due funzioni originarie, sulla base delle quali si costruisce la totalità funzionale. L’in-dividuo. La soggettività.

    In virtù di queste premesse giungo ad una terza domanda: se è vero quanto afferma Zizeck – e io, sulla base del vissuto di tutti i giorni, sarei portato a dare il mio assenso – sul rovesciamento, nella società consumista contemporanea, delle caratteristiche superegoiche classiche, allora non si potrebbe dire che la soggettività come noi la conosciamo, l’Io dell’equilibrio, la coscienza freudiana, si sta frantumando (o ridefinendo) dinnanzi ai nostri occhi? Dice Zizeck: “Niente costringe qualcuno a godere, tranne il super-io. Il super-io è l’imperativo del godimento -Godi!”. In virtù delle dinamiche produttive globali viene distrutto il desiderio consapevole e incitato l’impulso compulsivo verso le cose. Ecco il feticismo delle merci. Voglio di più, sempre di più! Voglio cose! La figura che meglio rappresenta la situazione della soggettività contemporanea è forse quella del protagonista del romanzo più famoso di Chuck Palahniuk, Fight Club. Un uomo che non riesce a costruire un orizzonte di senso sulla base del quale poter vivere. Un uomo che non sa più dar voce al desiderio deliberato. Alla progettualità. Una soggettività bulimica che non si sazia mai. Che compra, e che non è mai appagata. Che vive in un eterno presente. Sui piaceri labili.
    Sulle rovine, appunto, della vecchia soggettività.

    Non è questa, mi chiedo, la rivincita della funzione signorile della soggettività? Non è, per dirla con Platone, il punto d’inizio di un percorso di emancipazione dell’elemento timotico dell’anima?

    La domanda, in definitiva, è questa: siamo posti di fronte all’albeggiare di una nuova fase storica?

    • Analisi molto interessante, tanto quanto il post di partenza. In risposta alla tua ultima domanda io sarei senz’altro portato a rispondere: sì, lo siamo, e proprio perché la timosi, come dici tu, deve avere la sua “rivincita”. Del resto – e questo è l’unico punto su cui dissenterei da quello che hai scritto – non scordiamoci che la parte timotica non è affatto irrazionale, e sebbene a mio parere non se ne sia ancora data una genealogia esauriente, senza dubbio essa è il risultato della dialettica spirituale umana tanto quanto la nostra moderna (e tramontante) soggettività servil-borghese. Per lo stesso Platone solo la parte appetitiva era “irrazionale” (e anche qui si potrebbe chiosargli contro), mentre la parte timotica riconosceva per così dire intuitivamente il “meglio”, risultando così docile alla guida dell’auriga.
      Un altro appunto che si potrebbe fare sarebbe forse su Zizek (anche se ancora non l’ho letto, per cui non posso essere sicuro), nella misura in cui a mio avviso la connessione eros – feticismo delle merci si esplica in primo luogo nella misura in cui il desiderio – che è funzione timotica par excellence – trova nell’epoca moderna il suo fallimento più compiuto. L’epoca moderna è a mio avviso l’epoca iper-religiosa – nello stesso senso in cui si parla in arte di iper-realismo – parossismo della società tradizionale che consuma i suoi simboli e le sue narrazioni (morte di Dio) proprio per non poter rinunciare alla sua logica intrinseca (negazione della vita, nata a sua volta come negazione della sapienzialità astratta antica). Il fallimento del desiderio comporta il differimento eterno della propria soggettività, che si esprimerebbe per il borghese, non a caso figura-archetipo della modernità, nel discorso produzione di valore – feticismo della merce. Conclusione: se è vero che la crisi della società moderna ne rivela l'”osceno” in quanto inconscio, è sì vero che l’imperativo superegoico originario è il “Godi cazzo!” – ma solo se intendiamo questo godere come differimento e perversione del desiderio.
      Di qui la necessità della “rivincita” cui alludevi tu; di qui il fatto che il soggetto moderno sia un soggetto sempre abortito, mentre la post-soggettività contemporanea apre, seppure nel suo caos, una nuova possibilità di essere “Io” in modo più maturo.

  2. Errata corrige: Zizek, e non Zizeck

  3. Condivido con voi una massima di Lacan:

    “L’amore è dare qualcosa che non si ha ad una persona che non lo vuole”.

    • Massima mirabile, a mio avviso. La gente che se la trova davanti senza conoscere il contesto tende a ribellarvisi, vedendovi solo una rottamazione; ma se la si capisce a fondo credo che risulti palese la profonda giustizia, perfino romantica, che essa rende al nostro desiderare.
      Uno di questi giorni devo condividerla e commentarla sul mio blog.

      In generale voglio fare poi ancora i miei complimenti per l’articolo originale. Filosoficamente parlando ho più o meno già gettato i miei due cents in risposta al reply qui sopra; qui voglio solo aggiungere che più leggo su Lacan, e più cresce in me la certezza che sarà importante per me leggerlo.

  4. Credo che l’intervento di Riccardo Fraddosio sia veramente pregnante e ben argomentato: complimenti vivissimi. Personalmente credo in pieno alla post-storia timotica.
    L’unica cosa che mi sento di poter aggiungere alle affermazioni di Fraddosio è che in queste riflessioni siamo stati anticipati: “Ira e tempo” (Meltemi, Roma, 2009) di Peter Sloterdijk parla proprio della timotica nella post-storia (almeno questa è la mia modestissima interpretazione), e ad essa è stato dedicato tutto il corso precedente; un invito al pensiero ci giunge da Sloterdijk: anche la timotica, secondo lui, sarebbe tramontata. Cosa rimane allora? Forse una nuova erotica, che però non ha nulla più a che vedere col desiderio (di riconoscimento). E quì si potrebbe parlare di un mondo di Signori che vedono nel desiderio di appropriazione (e non in quello di riconoscimento) il loro fine e scopo ultimo.

  5. Il nostro presente si svolge e si mostra a noi in tempi e spazi ormai fortemente tecnologizzati: la tecnica ha inteso eliminare le cosiddette “distanze”, sia in termini di spazio che di tempo. Limiti connaturati a noi, al secolo e al mondo che si sono voluti oltrepassare. In nome dei nostri desideri ovviamente.
    A mio avviso l’effetto principale di questa tecno-rivoluzione è stato l’imporsi dell’ATTIMO come unità di misura delle nostre azioni ed anche delle nostre stesse intenzioni.
    Attimo inteso qui come l’Augenblick di Heidegger, cioè come l’istante in cui si dischiude il rapporto tra l’Essere ed il Possibile, mediante una decisione, una scelta, l’indirizzarsi verso qualcosa e non altro: l’attimo, dunque, in cui facciamo in modo che l’avvenire…avvenga.

    Grazie alla tecnica il nostro paesaggio del Possibile si è nettamente esteso, tanto da sembrare privo di confini, tanto da ridimensionare – secondo il mio parere – finanche il valore della scelta: non più espressione di volontà, responsabilità o convinzione, la scelta è ormai guardata con sospetto, come quel limite che non vale più la pena di accettare e “sopportare”.
    Mentre vinciamo (ma l’abbiamo davvero vinta?) la nostra ostinata ribellione contro le dimensioni che scandiscono il nostro vivere, tuttavia dobbiamo far fronte (paradosso o dantesco contrappasso) ad un ridimensionamento della nostra stessa individualità: sempre la tecnica, infatti, non fa che mostrarci l’invisibile fantasma microscopico che siamo agli occhi del Grande Altro, cioè del mondo presente come insieme simultaneo di tutti gli Altri che sono sempre Altro-da-noi.

    Il desiderio, oggi come ieri, è quello di essere “visti”, trovati seppure siamo celati nel minuscolo spazio e tempo che occupiamo, notati e riconosciuti nella miriade di volti…e ovviamente apprezzati e desiderati da chi ci “trova”.
    Anche qualcosa – o qualcuno – di microscopico, infatti, può diventare “visibile”: occorre, però, una lente d’ingrandimento, cioè uno specchio riflettente.
    Nell’abisso dell’alterità la domanda del volto risuonava, per Levinas, come “un appello silente”: tuttavia oggi, mentre ci è dato sentir parlare quasi tutto il mondo (resta non udita, per l’appunto, quella parte di mondo che non può comunicare attraverso la tecnologia), questo silenzio su-di-noi, il tacere del Grande Altro nei nostri confronti, giunge quasi a terrorizzarci.
    Il desiderio di Dire noi stessi, nella speranza di essere “visti” e “trovati”, è diventato – direi – proprio un bisogno.

    “Specchio, specchio delle mie brame…” diceva una famosa strega.
    Ciò che desiderava, affacciandosi ad esso, era che l’immagine riflessa nello specchio rispondesse proprio come lei sperava e sappiamo tutti quale delusione e vendicativa rabbia provò a sentir contraddetti i suoi desideri.
    Questo specchio delle nostre brame e dei nostri desideri, incontrato nel volto d’altri in ogni nostra relazione, oggi sembra non essere più “sufficiente” per l’ego in cerca di una risposta e di un riconoscimento di sé: questo avviene – a mio avviso – proprio perché la tecnica ha alzato la posta della nostra scommessa sull’essere trovati, ponendoci di fronte alla sconfinatezza del mondo.
    Ad occorrerci, perciò, è uno specchio che possa proiettare il nostro riflesso ben oltre i confini mondani di spazio e tempo ed è sempre la tecnica ad avercelo fornito: uno SCHERMO.

    Oggi si assiste ad un’auto-gettatezza (a mio avviso a tratti quasi compulsiva) dal proprio schermo verso tutti gli altri schermi, come un disperato appello di chi necessita di sentire su di sé lo sguardo altrui.
    Disperato appello ed evidente inganno: infatti, lo schermo, a differenza dello specchio, non riflette assolutamente chi lo sta guardando, bensì può solo trasmettere immagini provenienti da altri schermi.
    Lo schermo che non riflette, dunque, “spettralizza” – come diceva Derrida – e lo fa disincarnando l’Altro ed offrendoci di lui solamente ciò che l’Altro ha deciso di gettare dal suo schermo. (“La verità non è quella dei fatti, ma quella della televisione. La verità è diventata il fantasma stesso.” – afferma Derrida.)

    Ecco il punto chiave: il soggetto odierno è stato “liberato”, grazie alla spaziatura istantanea che si frappone tra il suo ed un altro schermo, dalla prigione del riflesso. Liberato da quella dispettosa immagine che riproduceva, senza lasciargli scampo, ogni suo gesto così come veniva compiuto.
    Davanti allo schermo può, invece, sempre scegliere come gettarsi incontro all’Altro e spesso (sempre?) lo fa non come esso E’, ma COME VORREBBE ESSERE.
    Così come vorrebbe vedersi allo specchio.
    Ciò che questo tecno-soggetto post-storico desidera è che qualcuno “ci caschi” e la sua è una doppia finzione: oltre che trarre in inganno l’Altro, sembra avere una qualche necessità di raccontarsi che il “come vorrei essere” – solo perché oppure proprio in virtù del fatto che è stato gettato sotto gli sguardi schermati degli altri – coincide con il “come sono”.

    Rispondo poi ad Antonio: a restare, forse, più che una nuova erotica, è una moderna e astutissima forma di “seduzione” (che, in fondo, è il primo stadio dell’erotismo e quello in cui maggiormente si attivano e si concentrano i nostri desideri).
    Seduzione che avrebbe proprio come fine ultimo quello di farsi riconoscere…ma con alcuni astuti accorgimenti: come ad un perenne primo appuntamento, celando il più possibile i propri difetti e sfoggiando solo il meglio di sé!

  6. Premetto di essere una studentessa di francesistica, questo è il mio primo commento in quanto mi è servito del tempo per ambientarmi e approfondire la conoscenza di determinati argomenti.
    “Je est un autre”, scrisse Rimbaud all’amico Paul Demeny, “j’assiste à l’éclosion de ma pensée: je la regarde..je l’écoute”. La formula non è contraddittoria solo perché accosta il polo d’identità del soggetto con il suo contrario, con l’indefinito, lo straniero: d’ora in avanti l’io non è più responsabile delle sue azioni.
    La realtà è un’ altra. Traspare il bisogno di far emergere l’ignoto che si cela dietro l’apparenza.
    Questa affermazione, come disse Edoardo Sanguineti, “designa la capacità di non sentirsi proprietari del proprio io. Il modello borghese di soggetto è un modello fondato sulla proprietà privata: questa cosa è mia, io sono mio.” Ed è proprio nello stato borghese che la spinta distruttivo-costruttiva del desiderio ha luogo, come Bataille arriverà a teorizzare intrecciando lo Hegel kojèviano al “suo” Nietzsche. E’ infatti Nietzsche che nella “Gaia Scienza” (aforisma 307) afferma “tu sei sempre stato un altro”, esiste una forza particolare che spinge a formulare un volere, volere che in seguito si realizza attraverso delle reazioni multiple che sfuggono all’intelletto nella loro diversità.
    Il soggetto vero non è dunque l’Io empirico. Altri poteri subentrano al suo posto, poteri dal basso, di carattere personale, ma di una violenza che costringe. E solo essi infatti sono l’organo appropriato per l’ intuizione dell’ “Ignoto” per Rimbaud.
    Quando Rimbaud dice in “Parade”: “Io solo possiedo la chiave di questa parata selvaggia”, egli definisce il poeta-profeta come l’uomo che parla dell’Eterno, di Dio presente in tutte le sue creature. Egli vede lo spettacolo invisibile (la parata) che si svolge dietro quello reale. Dietro i gesti dei giovani attori, egli vede le pericolose potenzialità dei loro fini. Vede i cosiddetti “fantasmi” bataillani delle popolazioni barbare.
    Anche nei dialoghi di “lui e lei” in “Exit ghost”, Roth, o meglio Nathan Zuckerman si fa altro, e scrive una commedia mista di desiderio e tentazione, di sofferenza, i cui personaggi sono più veri e vividi di quanto non lo siano nella realtà, “feci l’opposto, perché i miei pensieri affondavano non in ciò che ero ma in ciò che non ero”. I personaggi rothiani non sono mai soli, sono l’impossibiltà del narciso assoluto, quando si specchiano vedono mille personalità nel loro riflesso. Quello che resta a tutti alla fine è sempre la stessa cosa, il desiderio. “Non mi restavano altro che gli istinti: sentire il bisogno, desiderare ardentemente, avere”. E quando sentono di averlo perso, automaticamente crollano, arrivano a dubitare di loro stessi in ogni minima parte, restando così “derubati” di una vita che hanno appena cominciato a conoscere quanto basta per volerne un’altra, derubati da loro stessi, “a causa di un terribile meccanismo che mi porta a combattere e combattere –a combattere fino a distruggerlo- ciò che prima pensavo di desiderare di più”( ne “Il professore di desiderio”).
    Studioso di giorno e dissoluto di notte, l’io e “l’autre” rothiani non troveranno mai pace, “solo un intermezzo”, solo il “non” vissuto.


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