Pubblicato da: luciano de fiore | 19 novembre 2009

Verità e scrittura

Nella prospettiva letteraria, la ricostruzione narrativa delle storie individuali, il racconto dei destini intrecciati e tuttavia sempre singolari, consente di dire la verità nell’inganno: in quell’inganno che è la scrittura stessa se intesa come pulsione truffata [1]. Non c’è un’altra verità, esiste solo quella scritta: «Il quoziente di dolore di un individuo non è già abbastanza terribile senza amplificazioni romanzesche, senza dare alle cose un’intensità che nella vita è effimera e certe volte  addirittura invisibile? Non per tutti. Per poche, pochissime persone quest’amplificazione, uscendo e sviluppandosi in modo incerto dal nulla, costituisce la loro unica sicurezza, e il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più»[2].
Se a ciò aggiungiamo il fatto che spesso i personaggi alter ego di Roth sono anch’essi letterati o scrittori, si ha un effetto di rafforzamento, una verità alla seconda: per esempio, nel caso di Exit Ghost, Roth ricostruisce quanto anche Nathan Zuckerman sta ricostruendo per suo conto, ricapitolando la propria vita e tenendo il capo del suo Desiderio nella consapevolezza, già sua, di personaggio, che quel che affida alla scrittura è più vero di quel che vive. Al punto che le conversazioni che egli stesso, Nathan, immagina e trascrive con il soggetto del suo desiderio (una bella e soprattutto giovane ragazza, molto più giovane del protagonista), sono più vere di quelle reali: “le conversazioni che io e lei non abbiamo sono ancora più toccanti delle conversazioni che abbiamo, e la Lei immaginaria è vividamente al centro del suo personaggio come la vera Lei non sarà mai”[3].

Dattiloscritto originale di Patrimonio, Library of Congress

Desiderio sempre detto, mai realmente pensato? Davvero è il desiderio “ciò che rimane impensato al cuore stesso del pensiero”, come sostiene Foucault?[4] Quasi si desse una sorta di inavvicinabile “ombelico del desiderio”, così come si dà secondo Freud un “ombelico del sogno”, il punto in cui il sogno affonda nell’ignoto, nel non interpretabile oltre. Forse, proprio in questa radice ulteriore del desiderio, al di là della mancanza e dell’eccesso, consiste la sua estrema irriducibilità[5].
Per quanto vi sia chi vede una radicale incompatibilità tra il desiderio e la parola, Philip Roth, in ogni caso, presidia con la sua intera opera il versante della traducibilità del desiderio in arte detta, in asse con l’impostazione del desiderio inteso non tanto come mancanza, ma come esperienza del suo opposto, dell’eccesso. Il desiderio considerato dunque come driveconatus per dirla con Leibniz e Spinoza – come vettore che strappa dall’incompiutezza verso nuovi compimenti, sempre però parziali e sempre insoddisfacenti. Il desiderio tende infatti a riproporsi, a riprodursi, a differenza del bisogno. Motivo per cui anche Lévinas distingue nettamente bisogno e desiderio, essendo il primo una figura della totalità ed il secondo invece una figura dell’infinito, proprio perché non si non acquieta in alcun appagamento.
La filosofia ha da sempre riconosciuto al desiderio questa rivoluzionarietà, la capacità di sfuggire da qualsivoglia gabbia il soddisfacimento abbia potuto costruirgli intorno. E perciò “preso in sospetto da tutti i filosofi per la sua carica di alterità, per il suo non essere identico a se stesso, per la sua capacità di produrre turbamento (o movimento). Per il suo essere potenzialmente infinito, per la sua natura dissipativa che riproduce il medesimo paradosso della vita, quello di un valore che non si può accumulare ma solo spendere. E perciò condannato prima che compreso”[6].
In questa considerazione del desiderio come eccesso, siamo vicini alla lettura che di Kojève dà Bataille, lettore forse distratto di Hegel ma non del suo esegeta franco-russo di cui seguì le incantate lezioni parigine anteguerra. L’oggetto del desiderio sensuale è essenzialmente un altro desiderio – questo punto aveva colto il marito della moglie di Lacan. Desiderio che aspira per sé alla perdita più grande, unico approccio possibile all’esperienza della propria potenza ed infinita profusione. Philip Roth condivide questo dinamismo dell’eccesso bataillano, per cui il desiderio per quanto pieno tende a non aver mai oggetto, e mai soddisfazione finale. Ciò è vero non soltanto per i primi romanzi (come Il lamento di Portnoy), nei quali è addirittura evidente il tema del desiderio senza fine. Vedremo che questo desiderio ha un nome: è il desiderio di desiderare, quello che trae nutrimento dal proprio continuo riproporsi, che si ripropone nella propria inesaustività al di là del “suo” oggetto, l’unica “cattiva finalità” riscattabile anche in un’ottica dialettica. Per questo abbiamo già detto che tale desiderio ha una natura perversa, e precisamente masochistica: perché si nutre del proprio riproporsi, desidera desiderare, desidera che la catena dei suoi fantasmi non s’interrompa, non se ne esauriscano gli anelli. L’individuo nel quale tale dinamica desiderante s’incrina o addirittura si spezza, fa esperienza della depressione, connotabile forse proprio anche in questi termini come la malattia (grave) del desiderare. Nei romanzi di Roth, anche nel più recente, The humbling, ciò che resiste è il desiderio – nell’espressione di Lacan. Il mantenimento della dimensione desiderante è ciò che preserva la divisione nel soggetto, permettendogli di restare sano. È il desiderio che ci consente di restare soggetti divisi, sfuggendo così alla pazzia[7].

Non è particolarmente appassionante e sa di antico anche la questione se si sia autorizzati o meno a identificare tout court lo scrittore con i suoi personaggi. In ogni caso, possiamo leggere tutta la produzione di Roth secondo il criterio della referenzialità: come dice David Kepesh ai suoi studenti in un punto nodale de Il professore di desiderio, “scoprirete (e non tutti lo approveranno) che non concordo con alcuni miei colleghi secondo cui la letteratura, nei suoi momenti più validi e interessanti, è ‘fondamentalmente non referenziale’”[8]. Per quanto sia appunto l’opinione di un suo personaggio, la referenzialità è addirittura rivendicata da Roth in quanto autore, al punto che si può sostenere che “il rapporto sempre oscuro tra lo scrivere ed il vivere è l’enigma che si è posto il compito di scrutare nei suoi romanzi”[9]. Come dimostra l’ultimo suo romanzo, The Humbling [10], e come lo stesso Roth ha confidato in un colloquio con Martin Krasnik, «è un’ esistenza orribile quella dello scrittore che stenta a scrivere. A me non manca niente in particolare, ma mi manca la vita. Non ho capito tutto ciò nei primi venti anni, perché stavo sempre a combattere, ero a fare a pugni con la letteratura. Quello scontro era vita, ma poi ho scoperto di essere sul ring da solo». Si alza in piedi. «Sono stati gli interessi che ho avuto nella vita e il tentativo di mettere per iscritto la vita sulle pagine ad avermi reso un scrittore. Poi però ho scoperto che da molti punti di vista sono fuori dalla vita»[11].

The Humbling, 2009

Cosa eccede, nella vita? Cosa fa continuamente scandalo alla scrittura, incapace di renderne la natura e l’essenza? Proprio il desiderio. Prima della crisi della scrittura e della morte dello scrittore, al centro dell’attenzione va posto l’animale desiderante, e morente. Animale è la nostra radice ed il nostro destino. Di lì veniamo, lì – nell’animalità – permaniamo nel mentre del nostro processo d’identificazione personale e sociale. Lì, infine, torniamo, agiti da questa forza naturalmente umana, propriamente speciale, che ci spinge oltre noi stessi anche quando, appunto, i grandi giochi sono fatti. Cosa continua a desiderarci?
In sostanza, rispondono Dante Hegel Kojève, siamo desiderati dallo sguardo dell’altro. È l’Altro che ci sostanzia – come per il cavaliere il servo e viceversa. È la parte servile di noi stessi che ci sostanzia e desidera la parte signorile del nostro Sé, una promessa d’integrazione certo, non una certezza. E la parte signorile deve imparare a convivere e a riconoscere la propria dipendenza dalla natura e dal lavoro della parte servile, pena il delirio d’onnipotenza e la spirale pseudo-narcisistica. Nel volto dell’altro cerchiamo indefinitamente il nostro, ma non ci cogliamo mai e l’Altro ci rappresenta tutta l’abissalità tremenda del suo desiderio, lui sì immortale: «Sa, la passione con l’età non cambia, eppure si cambia, si invecchia. La voglia di donne si fa più acuta. E c’è una potenza nel pathos del sesso che prima non c’era. Il pathos per il corpo femminile diventa più persistente. La passione sessuale è sempre profonda, ma lo diventa ancor più»[12].
Non si tratta quindi di processi astratti. Le storie di Philip Roth mostrano in azione questa dinamica, incarnandola – è proprio il caso di dirlo – nelle storie individuali dell’uomo post-storico. Seguiremo l’intrecciarsi delle vicende di alcuni degli uomini qualunque rothiani, in particolare di due dei suoi eteronimi per eccellenza, David Kepesh e Nathan Zuckermann, esempi chiarissimi di intertestualità e meta-narrazione post-moderna.
Uomini qualunque, e non eroi, perché di eroi non vi è traccia nei romanzi di Roth.Uomini qualunque, ma non la ordinary people nel senso banale di uomo della strada, bensì nel significato che lo stesso Roth attribuisce a quest’espressione nel romanzo dallo stesso titolo[13], Everyman, ancora nell’intervista concessa a Martin Krasnik nel 2005, che racconta: «Roth se ne va, torna reggendo una piccola copertina nera. È la copertina del suo nuovo libro. È completamente nera, con una sottile linea rossa che incornicia il titolo, Everyman. «Che cosa ne pensa? è stata approvata proprio oggi» dichiara. Sembra quasi che abbia a che fare con la morte, rispondo. «Sì, se desidera la morte, spende proprio bene i suoi soldi. Everyman è il nome di una serie di commedie inglesi del XV secolo, commedie allegoriche, opere morali. Avevano luogo nei cimiteri e il tema di ognuna di esse è la salvezza. Quella classica si intitola Everyman e risale al 1485, opera di un anonimo. Proprio a metà tra la morte di Chaucer e la nascita di Shakespeare. La morale è sempre la stessa: “Lavora sodo e andrai in paradiso”. Oppure: “Sii un buon cristiano o andrai all’ inferno”. “Everyman” è il protagonista e riceve una visita dalla Morte. Pensa che sia una specie di messaggero, ma la Morte gli dice: “Io sono la morte” e la risposta di Everyman è il primo grande verso del teatro inglese: “Oh, Death, thou comest when I had thee least in mind”. “Oh, Morte, arrivi quando meno ti avevo in mente” – il mio nuovo libro è sulla morte e sul fatto che si deve morire. Beh, che cosa ne pensa?». «È nero», dico, e gli chiedo se il suo editore non teme che la gente non lo acquisti proprio a causa del suo colore. «Non mi interessa», ribatte, «io voglio che sia così».
Ma quest’uomo qualunque tra il desiderio e la morte va considerato un personaggio, oppure è una maschera dello stesso Philip Roth in quanto autore? Proprio l’intertestualità ci soccorre: consideriamo uno spazio testuale tridimensionale, le cui kristeviane tre coordinate di dialogo siano chi scrive (l’autore), il lettore ideale ed i testi esterni al lavoro in questione ma implicati, richiamati da questo. Lo spazio testuale è compreso dai piani intersecantisi creati da assi orizzontali e verticali. L’interstestualità aiuta insomma a tener conto della relazione tra un testo ed ogni sapere di altro testo che chi scrive o chi legge apporta alla narrazione. È insomma la rete di funzioni che costituisce e regola il rapporto tra testo ed intertesto. Questa interconnessione forma, nei romanzi rothiani, una solida trama narrativa. Un esempio evidente di intertestualità è la presenza nel corpus rothiano di personaggi ed avvenimenti citati poi in opere successive. Oltre agli eteronimi classici – Nathan Zuckerman, David Kepesh e Philip Roth in quanto personaggio – troverete così una Amy Bellette giovane e seducente ne Lo scrittore fantasma, per poi reincontrarla anziana e sconfitta in un piccolo appartamento newyorkese in Il fantasma esce di scena, decenni dopo.
Per quanto attiene il piano metanarrativo, il rapporto tra la scrittura e la realtà altra, va considerato anch’esso costantemente, favoriti da una scrittura che richiama peraltro di continuo l’attenzione del lettore sul suo status di artefatto proprio per interrogarlo sulla sua relazione con la realtà extra-narrativa. Come dice un suo personaggio in Inganno (una giovane signora, amante di un letterato più agé, che si chiama Philip Roth peraltro): “Quando uno scrittore degno di questo nome è arrivato a trentasei anni, non traduce più l’esperienza in una favola: impone le sue favole all’esperienza”[14].


[1] Deception (1990) è un racconto lungo in cui è a tema proprio l’espressione letteraria di una catena pulsionale, gli inganni reciproci di una coppia di amanti, unica verità del loro rapporto. Di un rapporto che infine è un rapporto d’amore (Anche se Lacan godrebbe nel constatarne l’assoluta impossibilità, sancita dallo scoppiarsi stesso della coppia).

[2] Philip Roth (2007), Il fantasma esce di scena, Einaudi, Torino 2008, pag. 119.

[3] Ibidem.

[4] Michel Foucault (1966), Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, pag. 386.

[5] «Vi è sempre il non-senso in ogni opera dotata di senso, una quantità di follia nel pensiero creativo. Questo è il motivo per cui i pensieri creativi traggono origine da questo ombelico, dal territorio in cui senso e non-senso non si sono ancora definitivamente separati», Lucio Russo, Le illusioni del pensiero, Borla, Roma 2006, pag. 14.

[6] Ugo Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, pag. 17.

[7] «Lo schema enumera e ordina proprio le forme necessarie al mantenimento del desiderio, grazie alle quali il soggetto resta un soggetto diviso, cosa che è nella natura stessa del soggetto umano. Se non è più un soggetto diviso, è pazzo. Resta un soggetto diviso perché c’è un desiderio, il cui campo non deve essere nemmeno tanto comodo da mantenere, dal momento che una nevrosi è costruita com’è costruita per mantenere qualcosa di articolato che si chiama desiderio». Jacques Lacan (1988), Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, pag. 441.

[8] Philip Roth (1977), Il professore di desiderio, Einaudi, Torino 2009, pag. 164.

[9] André Bleikasten, Philip Roth, Belin, Parigi 2001, pag. 17.

[10] Il romanzo inizia con queste frasi: “He’d lost his magic. The impulse was spent… His talent was dead”. Insomma, un attore che ha perso l’ispirazione, che sente che l’impulso a recitare è spento. Sembra che Barry Levinson trarrà un film dal romanzo, e che Al Pacino impersonificherà Simon Axler, l’attore in crisi.

[11] Intervista a Martin Krasnik,  “La Repubblica”, 21 dicembre 2005.

[12] Intervista a Martin Krasnik, cit.

[13] Philip Roth (2006), Everyman, traduzione italiana di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2007.

[14] Philip Roth (1990), Inganno, Einaudi, Torino 2006, pag. 87.


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