Pubblicato da: luciano de fiore | 19 novembre 2009

Malato di desiderio

Philip Roth

Del desiderio la filosofia si è occupata, sia pure a singhiozzi, da quando è nata. Più direttamente, è stato un soggetto preferenziale per la psicologia del profondo fin dalla sua fondazione e poi fino a Lacan ed a Žižek. Seguiremo d’ora in poi le sue tracce attraverso un’altra scrittura, di un autore contemporaneo di lingua inglese, Philip Roth.
È un americano-tipo, Roth? Non trovo appassionante la disputa se ritenerlo il più americano tra i grandi scrittori ebrei o il più ebreo tra i grandi scrittori americani. Come ha detto di sé a Mary McCarthy, Roth si sente di gran lunga più uno scrittore che un ebreo. Un suo romanzo, The human Stain, la macchia umana, esplicita meglio di una tesi teorica quanto la macchia appunto sia trans-etnica e transculturale, e quanto sia piuttosto decisivo il riconoscerla, percorrendo quei cunicoli bui di cui parlava Nietzsche nella Gaja scienza. Quei cunicoli divengono le strade del New Jersey e del New England percorse dai personaggi di Roth.

Un largo paesaggio sentimentale abita le pagine di questo tipico narratore della e alla fine della Storia. Philip Roth, nato a Newark il 19 marzo del 1933, premio Pulitzer nel 1997, è l’unico scrittore americano contemporaneo di cui la Library of America stia pubblicando l’opera in vita, giunta al trentesimo libro. Lui ed i suoi principali alter-ego – i vari David Kepesh, Nathan Zuckerman e lo stesso Philip Roth in quanto personaggio – vivono a cavallo tra secondo e terzo millennio. Hanno sulle spalle la Shoà, loro Ebrei americani, la Newark del proibizionismo e del nuovo sogno americano, le tentazioni autoritarie dei Lindberg e dei Nixon, la tradizione ed i padri che l’hanno innervata prima e poi resa esausta. Hanno vissuto la rivoluzione sessuale, la vita nei campus universitari della costa orientale e la Guerra del Viet-Nam e le due Tempeste nel deserto. Hanno negli occhi il lampo dei Boeing contro le Torri ed il bruciore delle macerie dell’11 settembre.
Ormai passati i settantacinque, Philip Roth sarà anche un superbo anatomista della senilità – come lo ha definito Emanuele Trevi – ma ha compreso oltre, e narrato, che la vita stessa è divenire vecchi, anche a venti o trent’anni, e che l’età e le stagioni della vita stanno in un rapporto complesso con il desiderio. Lo ha compreso, ha colto cioè i riflessi del tempo che trascorre nelle passioni umane, nella rinuncia graduale ed appassionata alla sola analitica dei concetti, a vantaggio di una analitica esistenziale fatta di incontri, di desiderio di desiderare essendo desiderati, e di desiderio di non desiderare, maturando una solida sfiducia nelle pretese della sola ragione. Ha compreso che quella “radicale sconvenienza che fa della lussuria la lussuria [1], non si acquieta con l’età, neppure dopo le malattie e l’ingiuria del cancro. Come sbotta una delle amanti di un protagonista rothiano, Mickey Sabbath, “hai il corpo di un vecchio, la vita di un vecchio, il passato di un vecchio e la forza istintiva di un bambino di due anni” (Il teatro di Sabbath).

Ma in Mickey Sabbath non è solo il desiderio a far sentire i suoi morsi, quanto le pulsioni. Come interrompere la cattiva infinità che può essere innescata dal loro continuo riproporsi? Una soluzione classica è la scrittura, una forma della sublimazione artistica. La scrittura come antidoto al morso della pulsione e che tuttavia non può prescinderne, nutrendosi di quelle, essendone la trasposizione sublimata[2]. “Il problema non è che tutto dev’essere un libro”, scrive Roth in La lezione d’anatomia, “è che ogni cosa può essere un libro. E non conta, come vita, finché non lo è”[3]. Ancora una volta, il cogito cartesiano, il sapere d’essere del soggetto si oggettiva nel nostro essere una macchina per scrivere: cogito, dum scribo [4].
Ci si può illudere così di marciare verso la saggezza. Salvo accorgersi al dunque che “tutti in marcia verso la salvezza, tranne me”; tanto vale ammettere allora che tu, scrittore, “ricavi le tue storie dai tuoi vizi, inventi sosia per i tuoi demoni […]. Davanti all’integrità tu rappresenti desideri indifendibili con spuri mezzi pseudoletterari, commettendo il delitto culturale della desublimazione. Ecco la ragione del contrasto, che non potrebbe essere più banale: non dovresti utilizzare la vita genitale per ricavarne una commedia ebraica. Lascia le erezioni e gli schizzi ai goyim come Genet. Sublima, ragazzo mio, sublima, come i fisici che ci hanno dato la bomba atomica”[5].
La questione è posta in questi termini proprio nel romanzo forse più manniano di Roth, a quel Thomas Mann al quale dobbiamo la posizione più chiara del problema e della sua soluzione letterariamente sostenibile.
Ma se la sublimazione sfrutta la plasticità della pulsione, piegando la sua tendenza alla fissazione del godimento nella ripetizione [6], il desiderio ne resta il faro. Forse potrebbe dirsi che se la creazione artistica nasce dalla plasticità delle pulsioni strappate alla fissazione ossessiva, il desiderio ne costituisce l’ispirazione diretta.
Se la pulsione funge da forza propellente della creazione, il desiderio la indirizza e la guida soggettivizzandola, cioè individualizzando quello che comunque Freud aveva colto anche come un destino della libido. In altri termini, per Freud la sublimazione funge da difesa contro gli eccessi pulsionali, ma resta un destino della pulsione stessa, attraverso uno spostamento dei suoi fini sessuali in grado di orientarli verso forme non sessuate.
Tuttavia, dalla sublimazione avanza un resto: le pulsioni non possono essere sublimate nella loro integrità. Come nota Lacan, “qualcosa non può essere sublimato”, qualcosa cerca soddisfazione diretta senza passare atraverso il lavoro della sublimazione. Questo resto, questa dose di soddisfazione diretta è evocata in quasi tutte le pagine di Philip Roth.


[1] Philip Roth (2001), L’animale morente, trad. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2002, pag. 14.

 

[2] Freud si occupa di Sublimierung a partire dai Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). In estrema sintesi, «la pulsione sessuale mette a disposizione del lavoro culturale delle quantità di energia estremamente grandi; e ciò è dovuto alla peculiarità particolarmente accentuata in essa di poter spostare la sua meta senza ridurre sensibilmente la propria intensità. Questa capacità di scambiare la meta sessuale originaria con un’altra meta che non è più sessuale, ma è psichicamente imparentata con la prima, viene chiamata capacità di sublimazione».

[3] Philip Roth (1983), La lezione di anatomia, traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2006, pag. 231.

[4] Scrive Nicola Bonimelli: “Nelle Regole per la guida dell’ingegno, più precisamente la dodicesima, la scrittura di tali regole, dunque l’intellezione stessa, è innanzitutto una scrittura di sé, poiché, sostiene Nancy, è un e-scrivere sé tra quelle righe nel cui spazio aperto il sé scrivente si comprende, si comprende (e-)scrivendo(-si). Il farsi di una scienza universale è il farsi del sé che si comprende, la fondazione del Soggetto, dunque è il sapere di sé in grazia del suo (e-)scriversi: il sé viene a galla mentre (e)scrive la scienza”.

[5] Ivi, pag. 131.

[6] Sulla plasticità freudiana della pulsione, vedi Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica,  Bruno Mondadori Editore, Milano 2007, pag. 14 e segg.


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