L’animale morente non è il più bel libro di Roth. Anzi, non è tra i suoi migliori. Le frasi echeggiano come lastre di ardesia cozzanti, incapaci di trovare il proprio ritmo – ha scritto la “Yale Review of Books”. In effetti, dopo la trilogia americana che aveva flesso i propri muscoli su di una scena meno angusta che non l’introspezione autocommiserativa, questo romanzo ci riporta al cliché di Portnoy senza però quella vivacità ed effervescenza di linguaggio – tipica del miglior Roth della prima maniera – che rende tollerabile, e che anzi esalta, l’analisi personale dei personaggi. La storia consente però di scandagliare la dialettica tra pulsione e desiderio come pochi altri suoi testi e di toccare di nuovo alcuni temi-chiave: il rapporto tra desiderio e tempo e tra desiderio e piacere.
Un’epigrafe di Edna O’Brien apre il romanzo: «Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita». La citazione è tratta da una conversazione che lo stesso Roth riporta in Chiacchiere di bottega [1]. L’irlandese, autoesiliatasi a Londra, è considerata da Roth la migliore scrittrice di lingua inglese: «il grande mantello di Colette è andato ad Edna O’Brien, scrittrice più dark, più piena di conflitti, ma che però ne condivide la terrosità, la crudezza, la prosa cesellata, le cicatrici della maturità». Al centro di quasi tutte le storie della O’Brien c’è una donna sola, ma che non si rassegna alla solitudine e cerca l’amore, oppure che fa marcia indietro dopo un incontro sfortunato con un uomo. Come Edna gli confida, «questo è il mio territorio, che conosco grazie ad una dura esperienza. Se vuoi sapere qual è per me il punto cruciale della disperazione femminile, eccolo: nel mito greco di Edipo e nella riflessione di Freud su di esso, il desiderio del figlio per la madre è contemplato; anche la bambina desidera la madre, ma è impensabile, tanto nel mito, nella fantasia, quanto nella realtà, che questo desiderio possa essere consumato»[2].
Come per Roth, anche nella scrittura della O’Brien il sesso ha un ruolo-chiave: «la vita sessuale è centrale per me, come credo per qualunque altro. Il sesso richiede un sacco di tempo, sia il pensarci sia il farlo, anche se spesso è il pensarci ad avere il posto d’onore. Per me è soprattutto un ambito recondito, che contiene elementi di mistero e di razzia»[3].
Quest’autrice che ha scritto eminentemente e sapientemente di donne e di sesso apre dunque un romanzo considerato, probabilmente a torto, tra i più maschilisti Roth abbia scritto.
Non era Yeats? Sì, erano proprio di un altro grande irlandese quei versi: “Consumami il cuore; malato di desiderio | E avvinto a un animale morente | Che non sa che cos’è”.[4] Nella terza stanza di una poesia famosa, Sailing to Byzantium, inaugurata da quell’incipit bruciante, “That is no country for old men”, non è un paese per vecchi, ripreso anche come titolo per un suo romanzo da un altro protagonista della letteratura americana di questi anni, Cormac McCarthy e per un film fortunato dai fratelli Cohen.
Qual era il senso di quei versi di William Butler Yeats che danno il titolo al romanzo di Roth L’animale morente? Bisanzio, città dell’artifizio, della cultura, dell’immaginario, unico antidoto al desiderio. Ma prenderne possesso, divenire un uccello d’oro capace di cantare la natura, equivale – secondo Yeats – a non viverla, ad invecchiare ed a morire:
«Once out of nature I shall never take
My bodily form from any natural thing,
But such a form as Grecian goldsmiths make
Of hammered gold and gold enamelling
To keep a drowsy Emperor awake;
Or set upon a golden bough to sing
To lords and ladies of Byzantium
Of what is past, or passing, or to come»[5].
Parlare, scrivere il desiderio, se non lo si può più vivere. Oppure viverlo fino in fondo, e dirne. È quel che sceglie l’anziano professore di desiderio, il sessantaduenne David Kepesh, protagonista del romanzo d’inizio millennio di Philip Roth, dal titolo – appunto – The Dying Animal, l’animale morente[6].
Perché muore, l’animale? Per malattia o per età? Per la malattia dell’età, per quella malattia mortale che è il tempo. Per quella malattia che ci accoglie dalla nascita e ci accompagna tutta la vita fino al giorno in cui i nostri conti vengono chiusi.
Siamo nel decennio che porta al 2000 ed al 2001, l’anno del crollo delle Torri. L’animale morente, quel’11 di settembre, sembrò per un giorno almeno l’America col suo sogno infranto di inattaccabilità e di invincibilità. Due oggetti-fallo colpirono e distrussero in poche ore atroci il simbolo anch’esso potentemente fallocratico della potenza americana, il World Trade Center. Pochi mesi prima era uscito il romanzo di Roth. Conclusa l’anno precedente la trilogia sull’America del dopoguerra con La macchia umana (che chiudeva il ciclo comprendente Ho sposato un comunista e Pastorale americana,1998), tornano le storie di David Kepesh, già giovane protagonista de Lo scrittore fantasma e de Il seno.
Qui non ne va direttamente della caduta delle torri, ma del crollo – reiterato – dell’illusione narcisistica e solipsistica del protagonista, un intellettuale, docente – come sappiamo già – in un campus della costa orientale, dove tiene ormai solo un corso per laureandi di Critica pratica letteraria.
Quando il romanzo inizia, David non è più giovane come ai tempi dei suoi esordi; si direbbe avere alle spalle le storie intriganti con le coetanee del campus e rapporti intricati. Ha alle spalle anche un matrimonio, un figlio diciottenne ed un divorzio. Ha vissuto da coprotagonista le battaglie per l’emancipazione sessuale della donna degli anni Sessanta e Settanta, ha scelto infine come metro di vita il piacere: «il nostro argomento è il piacere. Come affrontare seriamente, nell’arco di una vita, i propri modesti, privati piaceri»[7]. Pleasure is our subject [8]. Non resta quindi per David che concentrarsi sul piacere: «Perché ho scelto di vivere come vivo, se non per il piacere, imponendo alla mia indipendenza il minor numero di restrizioni possibile?»
Vivere per il piacere, scansando come la peste quella cometa che è l’amore, la cui rotta periodicamente interseca quella del desiderio, creando infinite complicazioni. Insomma, ormai sembra divenuto davvero quel professore di desiderio che ambiva ad essere da molti anni ed ora che ne ha sessantadue, interviene frequentemente in programmi televisivi e ciò lo rende ancor più noto tra gli studenti e, soprattutto, tra le studentesse, la cui eventuale bellezza continua ad attrarlo e a turbarlo: «Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza. La vedo e mi acceca, impedendomi di scorgere ogni altra cosa»[9].
Ha preso l’abitudine, a fine corso, di dare una party a casa sua, invitando tutti gli studenti. Ma sono le ragazze quelle che non mancano mai. E tra di loro, immancabilmente, l’affascinante docente d’inglese trova sempre chi è disponibile a vivere un’avventura erotica con l’uomo esperto e colto, per di più proprio professore. Anche se a livello metatestuale è ovvio pensare ai cento luoghi letterari che hanno trattato dell’amore tra il vecchio e la giovane (da Chaucer a Molière fino a Lolita), L’animale morente non tratta soltanto di questo. Del sesso, si tratta: «ecco tutto l’incanto necessario». E ancora: “è del caso dell’eros che parliamo, di quella radicale destabilizzazione che è il suo eccitamento. In materia di sesso, è un tornare nella foresta. Un tornare nella palude. Uno scambio di dominio, uno squilibrio perenne, ecco di che si tratta»[10].
Sesso come destabilizzazione e squilibrio: la parità sessuale non esiste, sostiene Kepesh, nonostante le fulgide vittorie del femminismo degli anni Sessanta. Semplicemente perché il rapporto sessuale non ha luogo, proprio perché è rapporto; coincide con l’atto, è il darsi reciproco di due individualità (almeno due) che permangono nella propria irriducibile differenza, pur dando vita ad un caos di sensazioni e di ruoli.
Sesso anche come illusione privilegiata di sfuggire al tempo, restando la grande alternativa alla morte: «Essere casto, vivere senza sesso, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi? Facendo tutti i figli che puoi? Questo aiuta, ma è niente rispetto all’altra cosa. Perché l’altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticartela mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?»[11]
La filosofia, David – potremmo rispondergli. La filosofia vera, non quella fatta di luoghi comuni abusati di cui David sembra accontentarsi (il matrimonio come spinta ai rapporti extraconiugali, per esempio) è in grado come e più del sesso di prendere su di sé il peso della nostra finitudine assumendoselo tutto, imparando ad evitare ogni scorciatoia che si presenti come privilegiata e serena per l’eternità. Si potrebbe richiamare l’hegeliana fatica del concetto: il compito, gravoso e indifferibile, di metabolizzare il tempo, rinunciando all’illusione d’immortalità.
Ma certamente il sesso resta la spina perennemente conficcata nella carne della nostra storia antropologica – come abbiamo visto anche in Kojève. Come scrive Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, «ogni alta civiltà ed ogni cultura letteraria […] si sono sviluppate a partire dagli interessi sessuali. In esse possiamo cercare ovunque la galanteria, i sensi, la lotta sessuale, la donna, e non li avremo mai cercato invano».
Sempre? Sì, sempre: «per quante cose tu sappia, per quante cose tu pensi, per quanto ordisca e trami e architetti, non sei mai al di sopra del sesso»[12]. Nel romanzo, David Kepesh vive la situazione ordinaria, per quanto solennizzata dalla letteratura, della persistenza del desiderio sessuale anche in tarda età: «essere vecchio significa anche – a dispetto, in aggiunta e oltre a “essere stato” – che sei ancora. Il tuo “essere stato” è molto vivo. Tu sei ancora, e uno è ossessionato tanto dall’ ”essere ancora” e dalla sua pienezza quanto dall’ ”essere stato”, dal passato». Il desiderio (dovremmo dire la nostra natura desiderante?) è l’antemurale del passato, dello “è già stato”. E ciò fa sì che, per quanto si sia consapevoli della finitudine delle cose e di noi stessi, «si è immortali per tutto il tempo che si è al mondo»[13]. Si è immortali fintanto che vive il desiderio.
Mentre si gioca, cioè mentre si fa sesso, davvero «il piacere sarebbe un fuori tempo provvisorio e senza durata, nel senso in cui lo intendeva Bergson, uno spazio di totale abbandono del soggetto, dove l’oblio del tempo prefigura l’oblio della morte, l’oblio del corpo mortale. Un annullarsi dei sensi, una folgorazione senza domani»?[14] No, è possibile avere un rapporto sessuale senza nessuna illusione d’immortalità, anche nel mentre lo si ha: «Se ti sentissi giovane, sarebbe troppo facile. Non ti senti giovane,tutt’altro: senti lì ampiezza del suo futuro illimitato contrapposto al tuo futuro limitato, senti – più ancora di quanto fai di solito – l’intensità di ogni ultima grazia perduta. È come giocare a baseball con una squadra di ventenni. Non è che ti senti ventenne perché stai giocando con loro. Noti la differenza ogni minuto che passa. Ma almeno non sei ai bordi del campo, in panchina.
Ecco che cosa succede: senti lo strazio di essere vecchio, ma in un modo nuovo»[15].
[1] Philip Roth, Chiacchiere di bottega, cit., pag. 104.
[2] Ivi, pag.109.
[3] Ivi, pag.111.
[4] Philip Roth (2001), The Dying Animal, L’animale morente, trad. it. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2002, pag. 75. Questi i versi di Yeats: “Consume my heart away; sick with desire / that fastened to a dying animal / It knows not what it is”.
[5] «Una volta fuori di natura mai più prenderò
La mia forma corporea da qualche sostanza naturale,
Ma una qualche forma quale gli orefici Greci fanno
D’oro battuto e smalto dorato
Per tener desto un Imperatore sonnolento;
Oppure seduto in cima a un ramo d’oro canterò
Ai Signori e alle Signore di Bisanzio
Del passato, o di ciò che sta passando o che verrà».
[6] Uno dei preferiti alter ego di Philip Roth, il professore di inglese David Kepesh, è protagonista di tre romanzi: Il seno (1972), Il professore di desiderio (1977) e L’animale morente (2001).
[7] Philip Roth, L’animale morente, cit., pag. 18.
[8] È anche il titolo del capitolo di Alaine B. Safer, in Mocking the Age. The Later Novels of Philip Roth, State University of New York Press, New York 2006, pagg. 133-146.
[9] P. Roth, L’animale morente, cit., pag. 3.
[10] Ivi, pag. 16.
[11] Ivi, pag. 52.
[12] P. Roth, L’animale morente, cit., pag. 26.
[13] Questa e la precedente citazione, ivi, pag. 28.
[14] Anne Dufourmantelle, Sesso e filosofia, cit., pagg. 31-2.
[15] P. Roth, L’animale morente, cit., pag. 27.
Leggendo le pagine de L’animale morente e ascoltando la lezione di oggi, mi è tornata alla mente la prima lezione di questo corso. In particolare le parole di Nietzsche pronunciate a Lou Salomé “Cadendo da quali stelle siamo stati spinti qui, l’uno incontro all’altra? ” e la lettura che ne è stata data. Allontanarsi dal corso sicuro degli eventi, allontanarsi da un cielo sicuro di stelle fisse per affrontare il mondo, la vita. Desiderare, lasciare le stelle per il mondo.
E forse lo stesso Kepesh, incontrando Consuela, ha abbandonato il suo cielo. Il cielo che si era creato, costellato di avventure passeggere e di piaceri effimeri. Incontrandola e vivendola si è scontrato con un desiderio totalizzante, che ha investito anche gli aspetti della sua personalità che era riuscito a nascondere, a riporre al sicuro per tutto l’arco della sua vita. Pur nel susseguirsi degli incontri e nel soddisfacimento momentaneo dei suoi desideri, il professore di desiderio era riuscito a creare un divario tra sé e il mondo, pensando il piacere come un momento a senso unico. Con Consuela la prospettiva è cambiata totalmente; quell’universo di stelle fisse, cristallizzate si è frantumato. E il desiderio l’ha travolto, attraverso il corpo per rubargli l’anima.
Un parallelo forse esagerato, quello appena esposto, eppure a mio avviso c’è qualcosa che accomuna il Nietzsche del 1882 e il Kepesh delle pagine di Roth: è il trovarsi spiazzati davanti al desiderio. Un desiderio che non si ferma in superficie, ma costringe a investire ogni parte di se stessi e a scontrarsi con la vera realtà, con il mondo.
By: Claudia Giannini on 10 dicembre 2009
at 21:44
C’è sempre qualcosa di anomalo quando si è i mangiati da un’ossessione. Si è preda di qualcosa senza sembianze che condiziona le nostri azioni, i nostri pensieri, tutto il corredo di atteggiamenti che va sotto il nome di “vita”. Ed è di questo che scrive Philip Roth: un ossessione di vita. o una vita di ossessioni.
Rifelttendo sulla figura del vecchio professore ossessionato da Consuela Castillo- a parer mio molto differente dal più lucido Zuckerman e dal Più emotivo Coleman Silk- risale alla mente quello che Lacan chiama il mito della Lamella, organo che dà corpo alla libido. ZIzek la descrive come ” iscindibile, indistruttibile, immortale o, più precisamente, non-morta nel senso che questo termine assume nella fiction Horror: non la sublime immortalità dello spirito, ma l’oscena immortalità dei morti viventi”. David kepesh appare come avviluppato da un’ossessione libidica che lo rende un non-morto, a fauci aperte, pronto a fagocitare sempre e di continuo il nuovo oggetto di desiderio. come la coscienza hegeliana, e la sua ” cattiva infinità”. riproponendo l’oggetto da togliere. Senza scrupoli.
Ed è questo il desiderio? un ossesione che mai riuscirà a trovare quiete? O, diversamente, l’unica speranza e illusione per trovare noi stessi? quello che david Kepesh cerca davvero è un altro o la costruzione di ogni angolo della propria identità? seppure diversamente da NAthan Zuckerman, o dall’emerito professore di Lettere classiche COleman SIlky SIlk, credo che anche David sia alla ricerca di se stesso. Attraverso l’altro. Attraverso l’ossessione di un altro che, sppure distante, è l’unica via- o illusione- per trovare il proprio sè. perchè come Sostiene Ross Posnock tutta l’arte di ROth si concentra su un punto, una scheggia impazzita: Rudeness. E dietro di essa, come un velo che ne smussa le recondite curve, c’è un altra parola: Identità.
By: Matteo Sarlo on 12 dicembre 2009
at 14:02
David Kepesh capisce da subito che Consuela Castillo non è come tutte le donne che ha frequentato. L’idea che la fascinosa cubana di ventiquattro anni potrebbe infrangere il suo sistema serpeggia già la prima volta che le tocca le natiche, quando lei acconsente di passare la notte insieme e gli dice che non potrà mai essere sua moglie.
È già in quel momento che la gelosia si impadronisce di Kepesh, che qualche crepa compare sui muri. E non per il discorso di Consuela sul matrimonio.
Consuela, la studentessa che sa quanto vale il suo corpo, ha trentotto anni meno di Kepesh: il professore è ossessionato dall’idea che un giovane potrebbe portargliela via. È così che ricomincia la frequentazione tra Kepesh e Carolyn Lyons, una ex studentessa persa di vista per tanti anni e il cui corpo occupa più spazio di una volta.
“Non sono più la stessa.” “Credi che io lo sia?” In questo scambio di battute tra Kepesh e Carolyn è tutta la sostanza della loro relazione: Carolyn rende tranquillo Kepesh perché con lei è neutralizzata l’ossessione da tormento pornografico così viva nel professore rispetto all’idea di Consuela.
Kepesh non è più il giovane del film porno, quello in cui immedesimarsi: lo era una volta, è in questo il suo tormento.
Quando parla degli anni in cui lui stesso era giovane come Consuela, Kepesh dice che per il sesso bisognava lottare e che era difficilissimo avere degli approcci : “Impossibile che ti facessero un pompino, certamente, se non per l’effetto straordinario di una perseveranza sovrumana. In quattro anni di college me ne hanno fatto uno.”
È solo un caso o si tratta dello stesso episodio raccontato nel romanzo Indignazione? Il protagonista, Marcus Messner, quasi non riesce a credere che Olivia Hutton, al primo appuntamento, “glielo ha succhiato” nella LaSalle nera che gli aveva prestato il compagno di stanza Elwyn.
La “lezione” di Indignazione è contenuta nel finale : “le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati”.
L’animale morente è piuttosto, per dirla con la Yourcenar, un “trattato della lotta vana”: quella di un uomo che cerca di vivere a tutti i costi in funzione del desiderio.
George O’Hearn , il più caro amico di Kepesh, che tenta di liberarlo in ogni modo dalla sua ossessione per Consuela, quella che sta mettendo al tappeto il professore di desiderio, cerca di sconfiggere anche la morte con il desiderio.
È proprio l’idea della morte,quella di Consuela, malata di cancro, che spinge Kepesh a offrirsi come sostegno: “Se dovesse venirti una crisi di panico di notte, di giorno, in un momento qualsiasi, telefonami. Verrò.”
In questa parte del romanzo sembra quasi che ci sia un testa a testa tra la dimensione del dramma e quella del desiderio. Ad un tratto pare che abbiano la pari in “una combinazione di erotismo e tenerezza” : poi è il dramma a avere il sopravvento. Non c’è più sesso tra David e Consuela, c’è solo la passione smisurata che lui continua ad avere per i suoi seni, proprio lì dove c’è il cancro che probabilmente ucciderà Consuela.
Non sappiamo se Kepesh sia andato da Consuela oppure no dopo che lei l’ha chiamato in piena notte terrorizzata per l’operazione imminente.
Kepesh non è il Philip Roth di Patrimonio, il figlio responsabile che va ad assistere il padre Hermann che si è ammalato di cancro a ottantasei anni. Philip fa i conti con la paura che prova rispetto alle sofferenze o alla morte del il padre: in lui prevale il pensiero che “Morire è orribile e mio padre stava morendo”.
Kepesh ha troppa paura di perdere l’ossessione sfortunata che non ha mai dimenticato e che un po’ gli ha cambiato la vita. Infatti una voce gli consiglia di non andare da lei: “Pensaci. Rifletti. Perché se ci vai, sei finito”. Ancora una volta, forse l’ultima, Consuela attrae e allontana David.
By: Paolo Massari on 17 dicembre 2009
at 06:27