Pubblicato da: luciano de fiore | 26 novembre 2009

Lo scrittore fantasma

Un Philip Roth quarantenne

Entra in scena il Fantasma. Con The Ghost Writer (1979), dedicato a Milan Kundera, diviene protagonista per la prima volta di un romanzo di Roth il suo personaggio più presente nella produzione successiva, Nathan Zuckerman, qui ventitreenne, alla prima apparizione di un ciclo che ne comprende ormai altre sette e che forse si conclude con l’uscita di scena del Fantasma, in Exit Ghost per l’appunto (2007).
Per due volte quindi in un titolo rothiano compare la parola Ghost, fantasma. Ma questa tematica insiste in tutta l’opera dello scrittore del New Jersey: sia in forma di ghost, appunto, sia in quella di spook, cioè di spettro – soprattutto ne La macchia umana.
«Vivo da solo, non c’è nessuno di cui io sia responsabile, a cui debba rispondere di quello che faccio o con cui debba passare il tempo. Decido io i miei orari. Di solito scrivo tutto il giorno, ma se voglio tornare nel mio studio la sera, dopo cena, posso farlo: non sono costretto a star seduto in salotto perché qualcun altro ha passato la giornata da solo. Non devo star seduto a far conversazione cercando di essere brillante. Se mi sveglio alle due di notte e mi viene in mente un’idea, accendo la luce e scrivo in camera da letto. Lavoro, sono sempre reperibile. Sono come un medico di un reparto d’urgenza. E sono anche il caso urgente»[1].
Tante solitudini non fanno una folla. Il solipsismo di Philip Roth nella realtà vissuta appare simile a quello del co-protagonista di questo romanzo, un altro scrittore, Emanuel Isidore Lonoff (che i più ritengono ispirato a Bernard Malamud ed altri ad Henry Roth ed altri ancora ad un misto tra Malamud e Singer), autoreclusosi sulle colline dei Berkshires, nell’estremo ovest del Massachusetts.

Nei Berkshires

Lassù, sulle colline al confine col Vermont e lo stato di New York, ha trascorso la propria vita letteraria una pattuglia di personaggi-scrittori non solo rothiani: il capostipite moderno di questa colonia nelle retrovie di Boston e New York, al confine tra la convulsa vita metropolitana e la concentrazione agreste, è certamente Moises Herzog, “la più grande creazione di Bellow, l’Harold Bloom della letteratura americana”, come lo definisce lo stesso Philip Roth in un bel saggio sul suo autore americano preferito, quel Saul Bellow di diciott’anni maggiore di lui, quasi un fratello maggiore o un giovane padre[2], come lui stesso lo definisce. Sui Berkshires si era già consumata l’intensa e breve amicizia intellettuale tra Melville e Hawthorne intorno al 1850, e lì Roth ambienterà anche la vicenda de La macchia umana. Questo isolamento dalla grande città, per scrittori per lo più metropolitani (come Bellow, “lo” scrittore di Chicago) o come lo stesso Roth (passeggiare con lui per Manhattan significa nuotare con un pesce nelle acque di New York, è stato detto); o come Melville, che appresso alla sua balena portò in alto mare le ansie del nuovo popolo americano, rappresenta il confronto con la grande tradizione dell’individualismo statunitense. Roth – come i suoi predecessori Whitman ed Emerson – non limita il Sé nel modo familiare della scabra indipendenza: “Contraddizione, il contrastare la dizione, è la genesi della sua scrittura”, ha notato Stanley Cavell [3].
Zuckerman è alla ricerca di sé, del proprio futuro essere scrittore. E si cerca in due Maestri, il secondo dei quali è appunto Lonoff, fantasma dello scrittore che Nathan stesso diventerà, più precisamente, fantasma dello scrittore che tra le pretese della vita, le distrazioni del vivere, e le esigenze scabre della propria arte ha scelto queste ultime. L’apice dell’opera di Lonoff è costituita infatti da una serie di storie nelle quali non vi è alcuna azione. La perfezione delle sue storie è la perfezione dell’immobilità, un’evocazione della vita alla quale l’assenza di azione conferisce un’eloquenza di disperazione che nessun’azione avrebbe potuto darle [4]. Una prolungata domenica della vita, un eterno weekend alla fine della Storia.
Anche se Lonoff consacra allo girare frasi una vita apparentemente monacale condivisa con la moglie Hope ed una donna misteriosa, Amy Bellette, sopravvissuta all’Olocausto ed accolta in casa dallo scrittore, la vicenda qui narrata è destinata a complicarsi. Benché, nei romanzi di Lonoff, l’eroe sia “il più delle volte, un nessuno venuto dal niente, lontano da una patria che non sente la sua mancanza, ma dove deve tornare senza indugio” [5]. E lui, Lonoff, è il suo di eroe, dell’acerbo Nathan Zuckerman, alle prese coi primi desideri che vede rispecchiati nell’uomo maturo e solitario che gli siede davanti sorbendo un cognac, in una lunga serata sulle colline: «Come lo amavo! Sì, non poteva essere che amore quello che provavo per quest’uomo senza illusioni: amore per la franchezza, la scrupolosità, la severità, l’estraniamento; amore per il vaglio inesorabile cui sottoponeva il proprio io, infantile, insaziabile,vanesio; amore per l’artistica tenacia e il sospetto in cui teneva quasi tutto il resto; e anche amore per il fascino segreto, che mi aveva appena lasciato intravedere»[6].
The Ghost Writer si occupa delle concezioni in movimento dello scrittore all’opera: dalla figura eroica modernista che redime il reale, alle volte al prezzo di doverla apparentemente abbandonare in nome della propria pretesa coerenza, al commediante posto moderno ansioso di violare le divisioni troppo secche tra arte e vita.
Ecco il punto. Può lo scrittore avere entrambe, l’opera e la vita? L’ideale jamesiano di Middle Years perseguito dall’anziano scrittore-fantasma (“We work in the dark – we do what we can – we give what we have. Our doubt is our passion and our passion is our task. The rest is the madness of art”); questo austero ideale dell’ascetismo jamesiano-lonoffiano, come si compone nella vita del ventitreenne discepolo? Ma è davvero possibile una moratoria dei desideri, anche posto di sia riusciti a sedare/sublimare le pulsioni?
Tre anni prima, ventenne quindi, Zuckerman aveva tentato la stessa operazione di avvicinamento mimetico – ma di segno opposto – con un altro scrittore, Felix Abravanel. A differenza che Lonoff, ancorato sulle colline della costa orientali, Abravanel viene fatto vivere in California, a Pacific Palisades, a poche miglia dal “suo amico e mentore Thomas Mann”.

Thomas Mann, 1933

E “la grande discordia umana” era la formula in cui Mann aveva sintetizzato il tema di Abravanel nell’esaltante prefazione all’edizione tedesca di Scottati al punto giusto[7]. Insomma, l’alternativa secca a Lonoff, al modello ascetico. Che lo stesso Lonoff compendia così al giovane Zuckerman: «Ammiro le prove durissime cui [Abravanel] sottopone il proprio sistema nervoso. Ammiro la sua passione per la poltrona in prima fila. Belle mogli, belle amanti, alimenti il cui importo uguaglia quello del debito nazionale, spedizioni polari, corrispondenze di guerra, amici famosi, nemici famosi, esaurimenti nervosi, conferenze, un romanzo di cinquecento pagine ogni tre anni, e gli resta ancora […] abbastanza tempo ed energia per tutto quell’egocentrismo […]. Non è facile la vita, lassù nell’egosfera»[8].
Lo stile di vita, diciamo così, di Abravanel aveva molto colpito il giovanissimo Zuckerman. Ma un particolare ne fece fallire la relazione: “Era chiaro che a Felix Abravanel non interessava minimamente avere un figlio di ventitre anni”.
Lonoff vs Abravanel. Come dire (è stato detto), Isaac Singer vs Norman Mailer.
Ha senso chiedersi, tra i due modelli di scrittore, quale incarni Philip Roth? Ancora una volta, incarna la contaminazione. La stessa che mostrerà alla fine del romanzo lo stesso Lonoff. Non c’è modo di esser soli del tutto, né del tutto mondi dal desiderio. La vita ci insegue e ci stana, fin sulle nevose colline del Berkshire – e lo si vedrà in seguito, ne La macchia umana e ne Il fantasma esce di scena. La vita non è mai facile, né nell’egosfera, né in una sfera più contaminata e aperta al desiderio dell’Altro. Per dirla con Kartiganer, “la narrativa rothiana rappresenta una metamorfosi, ma di un genere nel quale la trasformazione non è mai portata a compimento: i sé opponentisi, l’originale ed il subentrante, coesistono come rivendicazioni in competizione per un’identità”[9].
Per dirne una: nel 1984 la televisione inglese trasse uno sceneggiato dal romanzo. Il ruolo di Hope, la moglie di Lonoff, venne affidato a Claire Bloom, allora compagna di Roth. Grande attrice di teatro e ottima interprete anche al cinema, Claire è stata a lungo la compagna di Philip, e sua moglie dal 1990 al 1995. Ha condiviso dunque il periodo di maggior difficoltà personale di Roth, culminato nel ricovero in clinica per seri disturbi psichici sul finire degli anni Ottanta. Quella Claire, nella fiction televisiva, dovette fare la parte della moglie dello scrittore famoso che, sentendosi incalzata comunque dalla presenza di una donna più giovane vicina al marito (la misteriosa Amy Bellette, alias Anne Frank…), sbotta a cena, incurante del giovane sconosciuto commensale: “Prendila, Manny. Prendila, se la vuoi, – gridò, – così non sarai tanto infelice e tutto, al mondo, non sarà più così squallido. […]. E io me ne andrò! Perché non posso continuare a vivere come se fossi la tua carceriera! La tua nobiltà sta logorando l’ultima cosa che rimane! Tu sei un monumento e incassi, incassi… Ma io sono uno zero, tesoro, e non ci riesco. Cacciami via! Subito, ti prego, prima che la tua bontà e la tua saggezza ci uccidano entrambi” [10].

Anne Frank

Nel romanzo, Claire non convincerà facilmente il marito a rimpiazzarla con Amy. Ma alla fine proverà a lasciare Lonoff ed in un ultimo show down urlerà ad Amy: “Ecco la sua religione dell’arte, mia giovane sostituta: rifiutare la vita! Ecco da dove tira fuori i suoi magnifici racconti, dal non vivere! E ora tu sarai la persona con la quale non vivrà!”[11].

Ed infatti Nathan ascolta, o sogna di ascoltare, un lungo e penoso confronto tra Amy ed il vecchio scrittore. La ragazza lo incalza, dichiara tutta la propria dipendenza dal suo mentore, tutta la voglia di averlo per sé non solo come punto di riferimento e maestro, ma come uomo e amante. Per quanto Lonoff la inviti a fare la cosa giusta: “Sì, rinunciare a tutto!
– Ai sogni, esatto.
– Oh Manny, ti riuscirebbe tanto penoso baciarmi le tette? Anche questo è un sogno? Provocherebbe la morte di qualcuno se tu lo facessi?
– Copriti, adesso”[12].
Nathan, origliante, scopre di colpo tutta la puerilità e il desiderio di lei ed insieme il folle ed eroico ritegno di lui. C’è una terza strada tra l’abbracciare la vita, la gioventù e l’amore; tra il cedere a questa immagine del desiderio, e il rinunziarvi, rinchiudendosi nella turris eburnea di un’arte che, infine, aspirerà – come per l’ultimo Flaubert – a non parlare di nulla.

Ma The Ghost Writer consente a Roth anche di fare almeno in parte i conti con quell’ansa del proprio passato costituito dall’Olocausto. Siamo nel ’79, ed ormai lo sterminio fa parte delle carni di ogni ebreo. Ma in che termini? È per tutti eguale? Il giovane Nathan si difende così dalle accuse della madre che lo rimprovera per aver scritto un racconto “antisemita”: “In Europa, non a Newark! Non siamo i disgraziati di Belsen! Non siamo le vittime di quel delitto!
– Ma potremmo esserlo… Al loro posto lo saremmo. Nathan, per gli ebrei la violenza non è una novità, lo sai!
– Mamma, se vuoi assistere a qualche atto di violenza fisica contro gli ebrei di Newark, va nel reparto di chirurgia plastica dove le ragazze si fanno rifare il naso. Ecco dove scorre sangue ebraico nella Essex County, ecco dove il colpo viene inferto… col mazzuolo. Alle loro ossa… e al loro orgoglio!”[13].
Il registro scelto è dunque quello tragicomico, affidato al personaggio di Amy Bellette. Chi è infatti la misteriosa ragazza ventiseienne che vive con i Lonoff? È l’amante dello scrittore? Un’amanuense? Una discepola devota? E perché vive in casa Lonoff?
Amy altro non sarebbe che Anne Frank, sopravvissuta – lei sì – a Bergen-Belsen e – dopo tre anni trascorsi in Inghilterra – approdata negli Stati Uniti, fino in casa Lonoff. Dove apprende la propria storia, scopre di avere ancora un padre vivo, sessantenne, rifugiato anch’egli negli USA. E dove legge per la prima volta il proprio diario, chiosandolo e correggendolo qui e là, di modo che piaccia di più al suo mentore Lonoff: “Ma per lo più segnava quei brani che non riusciva a credere di aver scritto lei quando era poco più che una bambina. Accidenti, Anne, che eloquenza – le faceva venire la pelle d’oca, mormorare il proprio nome a Boston – che spirito, che bravura! Come sarebbe bello, pensava, se potessi scrivere così per il corso del signor Lonoff!”[14].

E Nathan? Beh, per porre fine alle dicerie sul suo anti-semitismo, per farla finita con quelle chiacchiere cosa ci sarebbe di meglio che sposare Amy, alias Anne? Chi potrebbe poi rimproverare alcunché al marito di Anne Frank?
La fantasticheria del giovane Zuckermann viene dunque promossa dal bisogno di sentirsi legittimato dalla comunità, nel modo più diretto per un verso, e più indiretto per un altro: non grazie al proprio cambiamento interiore, ma in virtù di un mutamento di status. Ma questa è la logica economica del bisogno, che poco ha a che vedere con quella perversa del desiderio.


[1] Philip Roth, «The New Yorker», 8 maggio 2000. Il brano è anche pubblicato in appendice alla versione italiana di Lo scrittore fantasma (1979), Einaudi, Torino 2002, pag. 151.
[2] Philip Roth (2001), Chiacchiere di bottega. Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro, Einaudi,Torino 2004, pag. 147.
[3] Stanley Cavell (1989), This New Yet Unapproachable America. Lectures after Emerson after Wittgenstein, Living Batch Press, Albuquerque 1989, pag. 89.
[4] Donald M. Kartiganer, Zuckerman bound: the celebrant of silence, in: The Cambridge Companion to Philip Roth, a cura di Timothy Parish, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pag. 36.
[5] Philip Roth (1979), Lo scrittore fantasma, cit., pag. 11.
[6] Philip Roth (1979), Lo scrittore fantasma, cit., pag. 46.
[7] Philip Roth (1979), Lo scrittore fantasma, cit., pag. 50. Che Roth faccia propendere Thomas Mann per l’ideale abravanelliano rispetto a quello lonoffiano dice molto sulla sua interpretazione complessiva dell’opera manniana, un’opera investita comunque anch’essa in pieno dal dilemma vita-cultura. Nella quale però la scrittura, pur filtrata attraverso gli alambicchi del rigore letterario, non uscirebbe monda dalla vita, ma grondante di contraddizioni.
[8] ivi, pag. 43.
[9] Donald M. Kartiganer, cit., pag. 37.
[10] P. Roth (1979), Lo scrittore fantasma, cit., pag. 36.
[11] Ivi, pag. 141.
[12] Ivi, pag. 98.
[13] Ivi, pag. 86.
[14] Ivi, pag. 111.


Risposte

  1. Il desiderio non ha oggetto nè soggetto,in quanto è oggetto-soggetto in se stesso.
    Il desiderio desidera ed è desiderato.
    Il desiderio è inseto nell’uomo,nell’essere uomo.L’uomo vive,è,quindi desidera.
    L’uomo desidera vivere,desidera essere,quindi non desidera altro ed oltre quel che già vive,quel che già è.
    Ha timore del “possibile” e a lui ignoto significato della propria vita,della propria esistenza perciò si “aggrappa” al desiderio,unico in grado di donargli speranza,sostanza soprattutto.perchè l’uomo teme tutto ciò non sia concretizzabile,spiegabile.
    L’uomo potrebbe,forse,essere senza Il Desiderio,ma,allo stato attuale dei fatti,senza non E’! Non c’è uomo al mondo che non desideri,sia pure il desiderio stesso.
    E Il Desiderio,a prescindere dall’uomo,è?
    Il Desiderio necessita dell’uomo,di qualcuno che lo nutra o che comunque desideri nutrirlo o di qualcosa che ne dia un senso materiale per esistere,sussistere?
    O semplicemente E’ in quanto E’ o potrebbe NON Essere (non importi che prenda in qualche modo forma o significato.E’)? Il Desiderio è quindi informe?

  2. Non conoscevo Philip Roth, mea culpa, non ne avevo neanche mai sentito parlare, eppure ogni riga di questo lettore mi appassiona sempre di più.
    Non mi sento legato ai suoi scritti come un fan sfegatato di un musicista lo attende ore ed ore dietro ai cancelli di un grande auditorium per poter correre a venerarlo da sotto al palco. No, non è sicuramente questo quello che provo leggendo i romanzi di Roth. Dopo “Il Professore di Desiderio” e “L’animale morente” ho sviluppato un grandissimo rispetto per la sua scrittura, in primo luogo, e per le vicende interiori dei protagonisti da lui ritratti.
    Rispetto perchè è una scrittura rispettabile, non sottovalutabile, è necessario dare a questi testi il rispetto che meritano e l’attenzione che ci chiedono. Non è solo la scenetta del vecchio e della scolaretta insieme sotto le coperte, c’è qualcosa di più.

    Per Zuckermann (o Kepesh) ogni evento fenomenico ha una gigantesca importanza psicologica. Lo sguardo di Amy Bellette seduta al ristorante e la sua testa mezza rasata hanno una portata infinitamente maggiore dell’attentato dell’11 Settembre.
    I personaggi di Roth non sono dei dandy, dei sadici, dei malati di desiderio o dei santi. Sono tutte queste cose insieme ma nessuna di queste allo stesso tempo. Sono in viaggio, in costante movimento seguendo il flusso degli eventi e della contingenza senza presente per dire la sua. Kepesh ormai si è rassegnato a questo, diciamo, ha compreso che il flusso non va fermato ma è necessario stare al passo con lui e farsi accompagnare da lui. Zuckermann, come il suo maestro Lonoff, non è della stessa idea. L’immobilità è la sua unica sicurezza e costanza, le abitudini, la scrittura, la non-vita.
    Adoro come i personaggi di questi romanzi si facciano sballottare dalla corrente, cercando in un modo o nell’altro di nuotare (a favore o contro la corrente) così come tutti noi cerchiamo di fare durante la nostra vita.

    A proposito della scrittura “immobile” di Lonoff e della sua coerenza con la fine della storia e Kojéve mi piacerebbe sapere qualcosa in più. Per un mio interesse, non tanto da filosofo, quanto da scrittore.


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