Sul corpo e sulla morte è incentrato anche Everyman (2006), il ventisettesimo libro di Philip Roth. L’uomo qualsiasi rothiano è un uomo che ha paura della morte e che, anche se anziano, vive ancora profondamente la dimensione desiderante, al punto che la morte arriva – è qui, tra noi nella dimensione del quotidiano – quando meno se lo aspetta.
Un romanzo riuscito, oppure un esercizio di stile, una predica nichilista sul disfacimento della carne? Everyman è stato accolto dai più come un romanzo tra i più riusciti dello scrittore americano: «in poco più di cento pagine, col consueto vitalismo che ha caratterizzato tutta la sua produzione, con l’attenzione alla materia, al corpo – e quindi alle tracce lasciate dai sensi, dal piacere, dal dolore –, Roth ha saputo parlare dello sgomento e della sofferenza suscitati da quel massacro che sono la vecchiaia, la malattia e la morte, appuntamenti inevitabili nella vita, nell’esistenza di “ognuno”»[1]. Altri commentatori, invece, hanno accolto con fastidio una così minuziosa opera di scandaglio e di dettaglio sull’ammalare e sul morire, aggiungendo una tessera alla consueta critica di pornografia rivolta a Roth, stavolta però non riferita ai corpi sessuati, bensì ai corpi malati e morenti.
«Di che cosa ha paura?». Mi guarda. «Dell’oblio. Di non essere vivo, è semplice! Di non sentire la vita, non sentirne l’ odore. La differenza che c’ è tra oggi e la paura di morire che avevo quando avevo 12 anni è che ora provo una sorta di rassegnazione nei confronti della realtà. Non avverto più come una grande ingiustizia il fatto di dover morire». Gli chiedo se è religioso. «Sono l’ esatto contrario di una persona religiosa», mi dice. «Sono anti-religioso. Trovo detestabili le persone religiose. Aborro le falsità della religione. Sono tutte menzogne. Lei è religioso?» mi chiede. «No» rispondo, «ma sono sicuro che la vita sarebbe più facile se lo fossi». «Oh» dice, «non credo. Provo una tale forte insofferenza, non è che sono nevrotico, ma il miserabile passato della religione… non intendo neppure parlarne. Non sono interessato a parlare delle pecore di cui si parla in qualità di credenti. Quando scrivo sono solo. Sono traboccante di paura e solitudine e ansia, ma non ho mai avuto bisogno che la religione venisse in mio soccorso». Gli chiedo perché ha continuato a scrivere, allora, se si sente così solo e pieno d’ansia. Lui sospira, ad alta voce. «Ci sono alcuni giorni che ricompensano tutto ciò pienamente» mi dice. «Nel complesso, in vita mia ho avuto un paio di mesi di questi meravigliosi giorni da scrittore, ed è sufficiente. In effetti è una buona domanda […]. Vede, quella di occuparsi di letteratura è una scelta, proprio come qualsiasi altra scelta. Subito però ci si identifica con una professione. E questo è il primo brutto colpo. Perché poi ci si cimenta nel corso dei decenni per fare il proprio lavoro sempre meglio, sempre diverso, facendolo e rifacendolo per dimostrare a se stessi di saperlo fare». Ma lei ormai sa di saperlo fare, giusto? «Non ne ho idea, non so se sono in grado di continuare a farlo. Come potrei saperlo? Come posso sapere che non mi mancheranno le idee, domani?»[2].
Nell’intervista, Krasnik gli fa osservare che il romanzo – anche nelle dizione originale con copertina integralmente nera – pare quasi una bibbia. «Ha! Meraviglioso. Perfetto. Io invece penso che sembra una stele sepolcrale». Attende che gli rivolga la prossima domanda. Ha paura di morire? Pensa a lungo prima di rispondere. Forse pensa ad altro. «Sì. Ho paura, è orribile». Poi aggiunge: «Che altro potrei dire? è straziante, è inconcepibile, è incredibile. Impossibile». Pensa molto alla morte? «Sono stato costretto a pensarci sempre mentre scrivevo questo libro. Ho trascorso due giorni interi al cimitero, per vedere in che modo scavano le fosse. Erano anni che avevo deciso di non pensare mai alla morte. Ovviamente ho visto morire della gente, i miei genitori, ma è stato soltanto quando un mio carissimo amico è morto nell’ aprile scorso che ho vissuto questa esperienza totalmente devastante. Aveva la mia stessa età. Nel contratto che ho firmato non è prevista una cosa del genere. Non ho visto nessuna pagina del contratto che lo prevedesse, sa? Come disse Henry James sul suo letto di morte: “Ah, eccolo qui, il grande evento”».
Nel romanzo il tema viene introdotto da subito, ed in termini chiari: «Niente abracadabra su Dio e sulla morte, né obsolete fantasie sul paradiso, per lui. Esisteva solo il nostro corpo, venuto al mondo per vivere e morire alle condizioni decise dai corpi vissuti e morti prima di noi. Se si fosse potuto dire che aveva individuato una nicchia filosofica in cui collocarsi, eccola: l’aveva trovata presto e intuitivamente, e per quanto elementare, era tutta lì. Se mai avesse scritto un’autobiografia, l’avrebbe intitolata Vita e morte di un corpo maschile»[3].
Non si tratta di un libro divertente. Come ha scritto Ross Posnock, “Roth sta alla rudeness, all’asprezza, come le corride e la pesca stanno ad Hemingway”[4]. Ruvidità che è alla fonte della sua energia stilistica e che però assurge qui anche a posizione morale, ad antidoto verso quella condizione di “anti-umanità che si definisce nice, graziosa”: la ruvidità rothiana è l’anti-nice.
Everyman racconta la storia di un pubblicitario di un certo successo, del quale non viene detto il nome ad accentuare il carattere di anonimato del protagonista, il quale dopo un’infanzia tipicamente rothiana, tre matrimoni falliti e numerose avventure sessuali, passa gli ultimi giorni in una casa di riposo del New Jersey, dipingendo e passeggiando, da quando ha dovuto interrompere le sue amatissime nuotate prima in mare e poi in piscina. Di fatto, assiste al declino del proprio fisico e reagisce con dolore al disprezzo che provano per lui i due figli maschi, i quali non gli hanno mai perdonato il fatto di aver abbandonato la madre. Il principale sollievo gli è offerto dalla figlia Nancy, nata dal secondo matrimonio, e la passione più forte sembra essere l’invidia per il fratello maggiore, ancora in forze. Un altro fondamentale sussidio gli è offerto dalla memoria che gli permette di ricordare i rapporti con i genitori nel corso dell’infanzia, i suoi lavoretti sugli orologi rotti nella piccola officina di gioielliere del padre.
Come quasi sempre nei libri di Roth, il protagonista condivide molti tratti dell’autore: è ebreo, ha all’incirca la stessa età, una storia di malattie alle spalle e vicende sentimentali complesse. Eppure, confida l’autore ad Antonio Monda[5], c’è molto meno Philip Roth nel romanzo di quanto si pensi, e per un motivo preciso innanzitutto, puntualizza Roth: perché sono ancora vivo. Sì, perché il racconto si apre con il funerale del protagonista: quell’uomo qualsiasi è morto.
Per tutto il libro, ha scritto ottimamente Alessandro Piperno che pure – a ragione, a mio avviso – non lo considera il miglior romanzo di Roth, si riconoscono «le stelle traslucide della galassia-Roth: c’è l’infanzia paradisiaca di un piccolo ragazzo ebreo del New Jersey, c’è un padre eroico, un fratello meraviglioso, una figlia fragile e i suoi fratellastri irrigiditi nel risentimento, c’è l’odore dell’oceano, il puzzo dei medicinali, il lezzo acuminato del sesso, il miasma del cinismo e del disincanto, ci sono gli scricchiolii del corpo che si disfa e il terrore per ciò che tutto questo comporta. C’è la vecchiaia che fa rima con solitudine e una nostalgia talmente cocente da risultare insopportabile. C’è la noia dei giorni che tutti cerchiamo pateticamente d’’ingannare. C’è una spietatezza che niente nasconde, appena addolcita dalla tenerezza»[6].
[1] Giuliana Massaro, Everyman di Philip Roth: il massacro della vecchiaia[2] Intervista a Martin Krasnik, “La Repubblica”, 21 dicembre 2005.[3] Philip Roth (2006), Everyman, trad. it. a cura di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2007, pag. 38.
[4] Ross Posnock, Philip Roth’s Rude Truth, cit., pag. XI.
[5] Antonio Monda, Roth, eros e vecchiaia, “la Repubblica”, 30 gennaio 2007.
[6] Alessandro Piperno, Ho sfiorato l’angelo della morte, “Vanity Fair”, 22 febbraio 2007.
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