Pubblicato da: luciano de fiore | 4 dicembre 2009

La lezione di anatomia: Roth e Nancy

Dal ’56 sui Berkshire, siamo ora nel ’73: Nixon è alle prese col Watergate, i marines sono impelagati nelle risaie del Viet-Nam, Israele sta spezzando le reni ad Egitto e Siria nella guerra dello Yom Kippur. Nathan Zuckerman, persi entrambi i genitori nel giro di qualche mese, somatizza: il disagio di vivere invade il suo corpo incarnandosi in un dolore atroce, al collo, alle braccia e alle spalle, un dolore invalidante e ubiquo. Ed è del corpo addolorato, di questa “mindless matter” che ne va in questo romanzo: il corpo è la nostra angoscia messa a nudo[1], esposta, se è vero che il corpo è estensione ed esposizione, consistendo anzi proprio nell’esporsi[2].
Del corpo, ma assai di più e direttamente delle sue parti, giacché non facciamo quasi mai esperienza del nostro corpo in quanto tale, mentre abbiamo confidenza – specie “grazie” al dolore – col corpo anatomizzato, e del corpo degli altri: “gli altri, invece, li saprò sempre come corpi. Un altro è un corpo, perché solo un corpo è un altro. Ha questo naso, questo colore della pelle, questo neo, questa altezza, questo incavo, questa stretta. Pesa questo peso. Ha questo odore”[3].
Seguendo i suoi indizi, Nancy afferma: “Corpus: un corpo è una collezione di pezzi, parti, membra, zone, stati, funzioni. Teste, mani, cartilagini, bruciature, soavità, zampilli, sonno, digestione, raccapriccio, eccitazione, respirare, digerire, riprodursi, ripararsi, saliva, sinovia, torsioni, crampi e nei. È una collezione di collezioni, corpus corporum, la cui unità resta una questione in sé”[4].
Nathan è dunque alle prese con questo corpo esigente e iroso, fatto di parti; roso dal dolore, legge, cercando conforto nell’antidoto classico alla sofferenza, la letteratura e la filosofia: “Come Zuckerman cominciava ad imparare, il dolore poteva renderti terribilmente primitivo se non era mitigato da dosi costanti e regolari di pensiero filosofico”[5].
Ma qual era l’origine di tutto quel dolore? “Non era leucemia, né lupus, né diabete, non era sclerosi multipla, né distrofia muscolare, e nemmeno artrite reumatoide: non era niente. Ma per niente Zuckerman stava perdendo la propria sicurezza, il proprio equilibrio mentale e la propria dignità”[6]. Era dolore puro, quello che “è come un bambino che piange. Non sa dire cosa vuole”[7]. È proprio vero, “il dolore fisico non resiste semplicemente al linguaggio, ma lo distrugge attivamente, causando un’immediata reversione allo stadio anteriore al linguaggio, ai suoni ed alle grida proprie di un essere umano prima di apprendere il linguaggio […]. Non ha contenuto referenziale. Non è di o per alcunché”[8].
E tuttavia urge, nemico del linguaggio, nemico di tutto ciò che non è se stesso. Il dolore non ha un contenuto referenziale, “se avesse tenuto un diario del dolore, l’unica voce sarebbe stata una parola: io”[9]. “Non il mio corpo, ma corpus ego […]. Non il corpo dell’’ego’, ma corpus ego”, scrive Nancy[10].
Sono le donne, surrogato della mamma, il tentato rimedio al male, infermiere prodighe, capaci di sollevare le lunghe ore dolorose con massaggi, applicazioni, giochi sessuali che integrano vodka, Percodan e marijuana. A volte, Jenny – una delle quattro che si alternano nel dare confort a Nathan – gli leggeva La montagna incantata, il grande libro in teoria più intonato all’occasione e che invece finiva con l’irritare Zuckerman, per le dinamiche possibilità di sviluppo che la TBC sembrava offrire ad Hans Castorp, laddove lui si sentiva inchiodato al proprio dolore. Soffro, dunque sono – come scriveva Valéry? Sì, ma soltanto perché nel dolore sperimentiamo la temporanea interruzione del senso che preannuncia la sua sospensione definitiva. Infatti, “il dolore non si dà come senso. Siamo nel dolore, perché siamo organizzati per il senso, e la sua perdita ci incide, ci ferisce. Il dolore, però, non dà senso alla perdita. Così come non dà senso al senso perduto. Ne è soltanto la lama, la bruciatura, la pena”[11].
Quando neppure le cure appaganti delle quattro amiche riescono a lenire la sua irredimibile sofferenza, Zuckerman decide di fare da sé: tornerà nella sua Chicago e studierà medicina, a quarant’anni, occupandosi anatomicamente del proprio dolore.
Nel frattempo, non cede ancora al desiderio di dissimulare, di continuare a mascherarsi da altri da sé. Per esempio, volando verso l’Illinois coinvolge in una conversazione il proprio vicino di posto in aereo e in tono amichevole si sente chiedere: “Lei viaggia per affari?
– Esatto.
– Qual è il suo ramo?
– Pornografia, – disse Zuckerman”.
Si toglie la maschera di Zuckerman, la sua maschera, e si spaccia per l’editore pornografo Milton Appel. Un introibo alla sua seconda vita di medico che lo attende a Chicago, ventanni dopo la prima laurea: medici e pornografi, entrambi interessati alla parte, più che al tutto. E d’altra parte, forse che Keats, Conan Doyle, Smollett, Rabelais, sir Thomas Browne non erano stati anche medici? Come poi Cechov, Céline, Cronin, Carlo Levi. Spacciandosi per pornografo, Nathan non fa che dichiarare il proprio essere preda di un dolore che lo spezzetta, lo riduce in parti, lo fa – per l’appunto – a pezzi. E di pezzi si occupa.
Ma anche studiando, impratichendosi coi farmaci analgesici di ogni tipo, Nathan non riesce ad aver ragione del dolore: “Cosa impedisce la mia guarigione, quello che faccio o quello che non faccio? Cosa vuole da me questa malattia? O sono io che voglio qualcosa da lei?”[12]. Certo, è lui che vuole qualcosa da lei, da quel dolore che è il suo proprio corpo, ma non sa di volerlo.
Fin quando, basta: il modo migliore di adattarsi al dolore è non adattarsi, dopo un anno e mezzo di sofferenze lo ha capito. Basta con Milton Appel. Basta con l’arte della doppiezza. Non resta che vivere l’esperienza della contraddizione, la esperienza umana, un fardello che tutti devono portare[13]. Finalmente, Nathan riesca a formulare un pensiero abbastanza complesso, al di là delle scorciatoie retoriche e dei zigzag dialettici che impregnavano la sua coscienza da anni. Riesce a formulare un pensiero complesso e diritto, alla Saul Bellow, capace cioè di rendere la meditazione congruente a quanto viene rappresentato. È Zuckerman o è Roth adesso a portare sulla superficie della narrazione il pensiero dell’autore senza inabissare la potenzialità mimetica del racconto, senza renderlo ideologico o didascalico?
“Il pensiero era questo: i medici sono sempre sicuri di sé, i pornografi sono sempre sicuri di sé, e, manco a dirlo, le ragazze forti come torelli che guidano le limousine vivono ben oltre i confini del dubbio. Mentre il dubbio è metà della vita di uno scrittore. Due terzi. Nove decimi. Un altro giorno, un altro dubbio. L’unica cosa di cui non ho mai dubitato era il dubbio”[14].
Lui dunque sarà un medico diverso. Un medico che non saprà sempre e velocemente cosa c’è da fare: la vita contro la morte. La salute contro la malattia. L’anestesia contro il dolore. La maniera del romanziere è il dubbio: non tanto sapere quanto esplorare, non prendere questo o quel partito, ma stare in sella al divario tra i due, senza mai nascondere le divisioni[15].
Già medico, Nathan incorre in una tragicomica caduta di faccia al cimitero, in una giornata di neve, caduta contro una lastra di marmo che gli procura una vasta e complessa frattura delle ossa maxillo-facciali [ha sbattuto la faccia contro la morte…]. Operato, sperimenta il dolore allo stato più puro. Tutto lui stesso diviene la sua bocca dolente. Curato dal collega Bobby Freytag, comprende infine il duplice significato della parola “corpus” e di aver provato a sfuggire al suo insopportabile destino di scrittore: “Per quasi tutto il tempo in cui restò un paziente, Zuckerman girovagò per i corridoi dell’ospedale universitario, pattugliando e pianificando tra sé e sé durante il giorno, come se ancora credesse di potersi togliere le catene da un futuro da uomo a parte e di sfuggire dal corpus che egli è” (vedere, pp. 419-20 ed. americana). Ma non può sfuggire al proprio destino facendo la parte dello scrittore trasgressivo ed antisociale, dell’uomo sopra le parti; e non può sfuggire al “corpus” della propria opera così come al dolore del proprio corpo[16].
La lezione finale di anatomia è la morte: “La malattia è un messaggio dalla tomba. Saluti: tu ed il tuo corpo siete uno – lui va, tu segui”. La morte in quanto corpo – limite, avrebbe detto Hegel e la sua tradizione.
Roth e Nancy. Il corpo in quanto essere dell’esistenza: “Come prendere più sul serio la morte? Come dire che l’esistenza non è ‘per’ la morte, ma – cosa ben diversa – che ‘la morte’ è il suo corpo? Non c’è ‘la morte’, come un’essenza cui saremmo votati: c’è il corpo, lo spaziamento mortale del corpo che iscrive che l’esistenza non ha essenza (nemmeno ‘la morte’), ma solamente esiste”[17].


[1]   Jean-Luc Nancy (1992), Corpus, edizione italiana a cura di Antonella Moscati, I ristampa, Cronopio, Napoli 2007, pag. 4. Corpus può esser ascoltato come un basso continuo a La lezione di anatomia, romanzo che ne restituisce un’immagine complessa ed affascinante.
[2]   Jean-Luc Nancy, Indizi sul corpo, Ananke, Torino 2009, pag. 67.
[3]   Jean-Luc Nancy, Corpus, cit., pag. 27.
[4]   Jean-Luc Nancy, Indizi sul corpo, cit., pag. 101.
[5]   Philip Roth (1983), La lezione di anatomia, Einaudi, Torino 2006, pag. 4.
[6]    Ivi, pag. 23.
[7]    Ivi, pag. 128.
[8]    Elaine Scarry, The Body in Pain: The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 4-5.
[9]    P. Roth, La lezione di anatomia, cit, pag. 189.
[10]  Jean-Luc Nancy, Corpus, cit., pag. 24.
[11]   Ivi, pag. 68.
[12]   Ivi, pag. 189.
[13]   Ivi, pag. 195.
[14]   Ivi, pag. 220.
[15]   Cfr. Donald M. Kartiganer, Zuckerman Bound: the celebrant of silence, in: The Cambridge Companion to Philip Roth, cit., pag. 46.
[16]   Robert M. Greenberg, Transgression in the Fiction of Philip Roth, in: Philip Roth, a cura di Harold Bloom, Chelsea House publishers, Philadelphia 2003, pag. 93.
[17]  Jean-Luc Nancy, Corpus, cit., pag. 16.


Risposte

  1. è curioso notare come la voce profetica di T.S.Eliot giunga sempre puntualmente in anticipo:

    The wounded surgeon plies the steel
    That questions the distempered part;
    Beneath the bleeding hands we feel
    The sharp compassion of the healer’s art
    Resolving the enigma of the fever chart.

    Our only health is the disease
    If we obey the dying nurse
    Whose constant care is not to please
    But to remind us of our, and Adam’s curse,
    And that, to be restored, our sickness must grow worse.

    The whole earth is our hospital
    Endowed by the ruined millionaire,
    Wherein, if we do well, we shall
    Die of the absolute paternal care
    That will not leave us, but prevents us everywhere.

    The chill ascends from feet to knees,
    The fever sings in mental wires.
    If to be warmed, then I must freeze
    And quake in frigid purgatorial fires
    Of which the flame is roses, and the smoke is briars.

    The dripping blood our only drink,
    The bloody flesh our only food:
    In spite of which we like to think
    That we are sound, substantial flesh and blood-
    Again, in spite of that, we call this Friday good.

    Il chirurgo ferito maneggia l’acciaio
    che indaga la parte malata;
    sotto la mano insanguinata sentiamo
    la compassione tagliente dell’arte di chi guarisce
    e scioglie l’enigma del diagramma di febbre.
    Nostra sola salute è la malattia
    se obbediamo all’infermiera morente
    la cui costante cura non è di piacere
    ma ricordarci della nostra maledizione e quella di Adamo, e che, per essere guarita, la malattia si deve aggravare.

    Tutta la terra è il nostro ospedale
    finanziato da un milionario in rovina,
    e qui, se va bene noi moriremo
    dell’assoluta cura paterna
    che non ci lascerà, ma ci precede ovunque

    Il freddo sale
    dai piedi alle ginocchia,
    la febbre canta nei reticolati mentali.
    Se voglio riscaldarmi, devo congelare
    e tremare nei freddi fuochi del purgatorio
    le cui fiamme sono rose, e il fumo spine.

    Sangue stillante
    nostra sola bevanda,
    sanguinosa carne il nostro solo cibo:
    e al contrario di ciò che ci piace pensare
    che siamo davvero solida, sostanziale carne e sangue.
    e ancora, e nonostante, lo chiamiamo Venerdì santo.

    (Four quartets, East Coker, IV)


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