
San Paolo
Scrive infatti Paolo: «“Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne»[1]. Tommaso d’Aquino, nel commentare questi due versetti, fa notare come in San Paolo si dia un doppio movimento, della natura e della grazia. Dal primo, siamo chiamati a non morire, dal secondo ad essere in Cristo e con Dio. La scelta, in questo caso, per la carne, dipende – secondo Tommaso – dalla carità più perfetta dell’Apostolo, che sceglie per l’amicizia dettata da un amore per Dio che passa attraverso l’amore per il prossimo.
Quando, parlando di Nietzsche, si è accennato all’etimologia che lega desiderio a disastro ed a come la Chiesa cristiana abbia fatto propria quest’associazione, non si voleva però certo svalutare la grande riflessione patristica e scolastica sul desiderio. Dire che la Chiesta istituzione, nei secoli, è stata una fiera avversaria del desiderio è vero a patto si chiarisca di quale desiderio stiamo parlando, ed a patto di non dimenticare quella logica del desiderio rintracciabile in una solidissima tradizione teologica, da Paolo fino ad Agostino su fino appunto a Tommaso e oltre. Nello stesso Paolo la condanna delle passioni punta non tanto e non solo alla loro estinzione, quanto al loro riscatto, alla possibilità che chi segue il Vangelo ha di trasfigurarle in amore. L’animo umano, secondo Paolo, alberga in sé un desiderio diviso: da un lato, sente in sé le istanze del corpo e del secolo, dall’altro però alberga nel proprio intimo anche la legge della propria ragione, illuminata da Dio: «Io mi trovo dunque sotto questa legge che, qundo voglio fare il bene, mi trovo davanti il male. Poiché io mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo interno, ma vedo un’altra legge nelle mie membra che combatte contro la legge della mia ragione e m’incatena alla legge del peccato che è nelle mie membra»[2]. Non vi è rimpianto in Paolo per i tentativi della tradizione stoica, non vi è tentazione di richiamare un preteso dominio della volontà sugli affetti per farla finita con questi. Commenta Bodei: «Diversamente dal saggio stoico, dall’individuo che pretende di conseguire – senza alcun ausilio esterno – il dominio monolitico sulle proprie facoltà, egli si scopre dividuo, irrimediabilmente dissociato da se stesso, opaco al proprio sguardo, soggetto e oggetto di una contesa che ne riproduce e replica, in forma drammatica, un’altra: quella che si svolge da epoche immemorabili tra Dio e demonio»[3].
Anche Agostino riprende in particolare questo spunto paolino, ritenendo che al cristiano non tocchi affatto volgersi contro gli affetti ed i desideri, ma che si trattasse piuttosto per lui di indirizzarli in modo particolare, facendo leva sì sulla volontà, ma anche e soprattutto sull’amore. Secondo il vescovo di Ippona, non bisogna vergognarsi di presentare l’uomo come animale desiderante, dal momento che proprio questa sua caratteristica lo mette in grado – unico tra i viventi – di ambire ad una sorprendente, unica felicità in Dio. Se i suoi legami con la città dell’uomo lo chiamano ad un attaccamento nei confronti di ciò che ama sulla sua terra natale, il suo essere anfibio, peregrino nel mondo, nomade, lo chiamano però anche e di più verso la patria celeste di Dio, una civitas intravista appunto solo grazie al desiderio. Insomma, del desiderio fanno parte a pieno titolo sia i timori, sia le speranze. Questa radice della speranza nel desiderio, oltre a infiammare di sé la storia dei movimenti soterici ed escatologici del cristianesimo, è stata tesaurizzata anche da alcune delle correnti marxiste nel Novecento.
[1] San Paolo, Lettera ai Filippesi, 1, 23-24.
[2] San Paolo, Lettera ai Romani, 7, 21-23.
[3] Remo Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Il Mulino, Bologna 1991, pag. 56. Tutto il libro di Bodei è un’utilissima guida per addentrarsi lungo i sentieri del desiderio agostiniano.
Vorrei sottolineare la differenza abissale e atroce, in tutta la carica che questi due aggettivi possono attribuire alla differenza stessa, che può sussistere fra quel tipo di desiderio di “annullamento” delle lettere paoline e quello di “annichilimento” che emerge ai nostri tempi e che, in una analisi di stampo sociale, approda quasi sempre negli ultimi anni ai giovani e alle tendenze artificiali del regno delle droghe o al suicidio.
Il “cupio dissolvi” che porta alla divinità è quasi sempre accomunato al suicidio come distacco ultimo e totale dell’individuo dalla dimensione sensoriale e terrena del percepire, una ricerca iniziata dagli stoici e fantasticata da molti nel corso dei secoli dell’abbandono dei sensi. In realtà mi sembrerebbe opportuno approfondire la realtà di un tale messaggio nella religione, in quanto mi sembra di rintracciare nei testi sacri monoteistici appartenenti alle religioni “dei tre anelli” e nei testi letterari e non che hanno approfondito il tema (per esempio, la Divina Commedia), il sussistere di una Nuova Percezione, un nuovo modo di percepire, una beatitudine piena e sovrabbondante, celestiale ed eterea, ma che sempre si lega ad un valore di ricettività dell’anima postuma. In secondo piano, ritengo che il raggiungimento stesso di una realtà pre-divina connoti il “viaggio” in maniera particolare, sui generis.
Inoltre il suicidio, per come lo può percepire una persona disperata o come rivelano alcuni soggetti analizzati da psicologi e psicoanalisti sotto i 25anni nell’attualità (nelle analisi, anche se liberissimamente riportate, per esempio di Galimberti), il desiderio di morte e di morire dei giorni nostri in generale, ha raggiunto, attraverso l’annichilimento e la cultura dell’annichilimento, portata avanti per quasi più di un secolo da movimenti culturali come il decadentismo, una maggiore brama di “black out”. Camus diceva che il problema filosofico per eccellenza è il problema del suicidio: tuttavia, il desiderio di morire adesso viene coltivato da età molto più tenere di quelle di una volta e la riflessione sul morire, attraverso media e libri, fa apparire abbastanza … “lineare” quella di stampo religioso, patristica o classica, a mio parere (vedi le condanne delle Chiesa al suicidio)
By: GiorgioAstone on 12 gennaio 2010
at 22:44