Questo corso inizia con un riferimento a Nietzsche, uno dei filosofi che in età moderna hanno mostrato maggiore affezione ed attenzione per il corpo, la vera Grande Ragione, secondo una sua notissima definizione. Il corpo è il transito eccellente del desiderio, imprescindibile introdurlo nel nostro orizzonte.
Il suo incontro con Lou Salomé ci apre con grazia e forza al nostro tema, in virtù di quella frase fortunata detta in quella sera romana di maggio.
Anche le riflessioni di Jean-Luc Nancy costituiranno un basso continuo delle nostre, a partire da quel piccolo libro che è La nascita dei seni e poi grazie a Corpus ed a Il “c’è” del rapporto sessuale, un testo che valorizza il rapporto più che la sostanza in senso cartesiano. Anzi, è proprio il rapporto die Sache selbst, la cosa stessa nel senso husserliano del termine, ciò di cui qui si parla, ciò di cui ne va, essendo il desiderio più nel rapporto che negli oggetti.
Mi occuperò quindi del desiderio lasciando da parte i numerosi e frastornanti usi linguistici del termine. La sua ricchissima fenomenologiaanto può invece esserci utile. Siamo cresciuti per esempio con la canzoncina di un film di Disney, felice volgarizzazione di un assunto freudiano centrale: “i sogni son desideri”, cantata da Cenerentola. E passando all’oggi, nella scorsa primavera RAI1 ha mandato in onda un programma in prima serata dallo stesso titolo, condotto da Caterina Balivo. Nel presentarlo, il responsabile del programma ha dichiarato: “Il nostro slogan è: non abbiamo la bacchetta magica ma faremo il possibile per accontentarti’. Tutto avviene in una carrozza magica all’interno dello studio”. Desideri e magia: i nostri desideri verrebbero soddisfatti da una forza magica esterna, indipendente dalle nostre volontà. Vedremo che le cose non stanno proprio così.
Ma che i sogni abbiano un rapporto stretto con i desideri è questione seria, da non lasciare certo alla volenterosa Balivo: ci è più utile Freud, e vedremo quanto il rimando tra sogno e desiderio sia strutturale e al contempo problematico.
Il programma di RAI1 ne ricorda un altro, assonante, in voga per alcune stagioni fino a poco tempo fa, condotto da Antonella Clerici. Si chiamava Il treno dei desideri. “Perché il “treno dei desideri”? Perché mi fa pensare ad “Azzurro” di Celentano e a Paolo Conte. E poi perché è l’unico mezzo, insieme alle Poste e ai Carabinieri, che arriva ovunque, anche in provincia”, diceva la conduttrice, regina del mezzogiorno con “La prova del cuoco”. Che non spiegava però perché il treno ha a che fare con il desiderio. Provo a rispondere: perché ha i vagoni. Perché i desideri – come sosteneva Gilles Deleuze, uno dei maggiori “filosofi del desiderio” – sono concatenati, attaccati gli uni agli altri proprio come i vagoni di un treno. E come un treno questa concatenazione di desiderio (agencement de désir) attraversa territori diversi, paesaggi diversi, e come gli stessi treni, cambia con le epoche e cambia le epoche e le atmosfere culturali. Se spesso non riusciamo a soddisfare i nostri desideri, è certo invece che essi cambiano, evolvono con la soggettività che desidera. Anzi, una questione centrale è proprio quella riguardante il soggetto desiderante: chi desidera? Si tratta, in ogni caso, di una soggettività esposta al mutamento, sia da un punto di vista individuale, come nel caso la soggettività desiderante sia sovraindividuale. Lo spiega lo stesso Deleuze, nella voce “Desiderio” del suo Abbecedario, il telefilm-intervista realizzato nel 1988:
«Finora si è parlato di desiderio astrattamente perché si è isolato un oggetto che si suppone essere l’oggetto del desiderio, e allora si può dire ‘desidero una donna, desidero partire per un viaggio…’ E noi dicevamo (Deleuze e Guattari) una cosa semplice: non si desidera mai veramente qualcuno o qualcosa. Si desidera sempre un ‘insieme’. Qual è la natura dei rapporti tra gli elementi perché ci sia desiderio, perché diventino desiderabili? Dice Proust, non desidero una donna, ma desidero anche un ‘paesaggio’ che è contenuto in quella donna, un paesaggio che forse neanche conosco, ma che intuisco e finché non ho sviluppato questo paesaggio non sarò contento, cioè il mio desiderio non sarà compiuto, resterà insoddisfatto. Quando una donna dice ‘desidero un vestito’ è evidente che non lo desidera in astratto. Li desidera nel suo contesto, nella sua organizzazione di vita. Il desiderio non solo in relazione a un paesaggio, ma a delle persone, i suoi amici o no, la sua professione. Non si desidera mai qualcosa di isolato. Ma ancora, non desidero neanche un insieme, desidero in un insieme. In altri termini non c’è desiderio che non scorra in un concatenamento. Di modo che il desiderio per me è sempre stato…. Se cerco il termine astratto corrispondente, è ‘costruttivismo’. Desiderare è costruire un concatenamento, costruire un insieme. L’insieme di una gonna, di un raggio di sole…di una strada, il concatenamento di un paesaggio, di un colore. Ecco cos’è il desiderio. E costruire un concatenamento significa costruire una regione. Concatenare. Il concatenamento è un fenomeno fisico, è come una differenza. Perché accada qualsiasi evento c’è bisogno di una differenza di potenziale e ci vogliono due livelli, bisogna essere in due, allora accade qualcosa. Un lampo o un ruscelletto e siamo nel dominio del desiderio. Un desiderio è costruire. Tutti passiamo il nostro tempo a costruire. Per me quando qualcuno dice ‘desidero la tal cosa’ significa che sta costruendo un concatenamento. Il desiderio non è nient’altro»[1].

Gilles Deleuze
In altri termini, Gilles Deleuze insiste su due punti essenziali: sull’errore di far derivare il desiderio dalla mancanza e sulla sua natura sovraindividuale: non siamo soli a desiderare, siamo sempre nel campo di un desiderio (anzi, di desideri molteplici), all’interno di una macchina di desiderio che è collettiva.
Prendendo partito in modo inequivocabile nei confronti delle due radici del desiderio, mancanza ed eccesso, il filosofo francese ha quindi sostenuto l’assoluta prevalenza del secondo, rispetto alla prima. Anzi, chi rintraccia l’origine del desiderio nella mancanza (la filosofia greca, molta della filosofia moderna – esclusi Spinoza e Nietzsche -, ma anche e soprattutto la psicoanalisi freudiana, che sarebbe anzi la capofila moderna della repressione del desiderio) avrebbe tradito la vera natura del desiderio che viceversa sarebbe una forza produttiva, positiva e creatrice: «Ci si obietta che sottraendo il desiderio alla mancanza e alla legge, non si potrà ottenere altro che uno stato di natura, un desiderio realizzato naturalmente e spontaneamente. Noi diciamo esattamente il contrario: non esiste desiderio se non all’interno del costruire o dell’operare. Non si può afferrare o concepire un desiderio al di fuori di una determinata costruzione, su di un piano che non sia preesistente, ma che deve esso stesso essere costruito. Che ciascuno, gruppo o individuo, costruisca il piano immanente dove condurre la sua vita ed i suoi progetti è la sola cosa che conta. Al di fuori di queste condizioni, viene infatti a mancare qualcosa, ma si tratta precisamente delle condizioni che rendono il desiderio possibile»[2].
Il desiderio “sarebbe piuttosto da concepirsi come un «corpo senza organi», ovvero un corpo collettivo biologico e politico, storicamente variabile, e che rifiuta gli strati di organizzazione relativi tanto al biologico («organismo») quanto al politico («potere»): esso è un campo costituito da zone di intensità, da gradienti, da flussi e da soglie, un campo all’interno del quale i concatenamenti si fanno e si disfanno, dando luogo alle serie storicamente mutevoli di stratificazioni dei concatenamenti stessi”[3].
[1] Gilles Deleuze, L’abécédaire de Gilles Deleuze, interviste televisive con C. Parnet dirette da P. A. Boutang, Vidéo Éditions Montparnasse 1996, voce : Désir.
[2] Gilles Deleuze (1995), Dialogues avec Claire Parnet, Éd. Flammarion, Paris 1996, pp. 95-97.
[3] L’utile sintesi è di Orazio Irrera, in Desiderio e piacere, un commento al testo deleuziano dallo stesso titolo, disponibile in rete.
La “Concatenazione del desiderio” riporta alla mia mente una famosa metafora, letta nelle lezioni di Edmund Husserl sulla sintesi passiva, a proposito del fenomeno dell’affezione. A mio avviao, ciò che Deleuze chiama desiderio, sarebbe probabilmente avvicinabile al concetto di intenzionalità nella fenomenologia husserliana. Nella quiete di un paesaggio di montagna, un lampo attira la mia attenzione e mi permette di afferrare la temporalità soggettiva dei miei vissuti tramite l’affezione. Questo evento scatenante (Reiz) permette la concatenazione dei vissuti all’interno della mia coscienza. Non è il lampo ad essere l’oggetto del mio desiderio (o della mia affezione), ma la concatenazione di vissuti che questo lascia riaffiorare dal passato (ritensione) o che anticipa (protensione).
By: Andrea Romano on 21 ottobre 2009
at 19:01
Credo anch’io che la proposta di pensare al desiderio attraverso Husserl sia un’intuizione molto importanate, anche se penso che il problema dell’intenzionalità husserliana sia difficile da accostare, così com’è nella lettera dei testi husserliani, al desiderio.
Se pensiamo, infatti, all’origine brentaniana del concetto di intenzionalità, ed al suo uso per descrivere la relazione polo soggettivo/polo oggettuale, si comprende come l’intenzionalità, in effetti, sia una categoria propria del processo percettivo, per così dire più di quello pulsionale/affettivo.
Il desiderio, mi pare, invece, più che sorgere dal lampo dell’affezione, o essere pertinente alla relazione intenzionale, appartenere al (non-)”luogo”del fantasma, forse, anche in senso husserliano (Idee II, ma anche Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo), oltre che in quello psicanalitico-lacaniano.
O ancor di più al “campo di fenomenalità” che rende possibile il lampo, rimando in una metafora che nelle Lezioni sulla sintesi passiva è cara ad Husserl.
Forse, ma questo è un punto su cui riflettere, il desiderio rende possibile la costituzione di una Realtà (come direbbe Lacan), più che rappresentare dei rapporti entro di essa.
By: Antonio Lucci on 28 ottobre 2009
at 20:56
“Non riesco a star da nessuna parte.
La mia patria è dove non mi trovo […]
Ah, magari ci fosse una nave per portarmi
ove si appagano tutti i desideri. ”
F.Pessoa
Interessante la sottile (ma non troppo) differenza tra il treno dei desideri di Conte e la nave dei desideri di Pessoa.
Il treno va sui binari e quindi è un mezzo di trasporto che ha già una direzione prestabilita. La nave, invece, è un mezzo di trasporto “anarchico”, che non si può davvero controllare nella sua totalità e che va dove lo porta il mare e il vento, nonostante ci sia un timoniere più o meno preparato.
Il treno davanti a sé vede il binario, la nave vede l’orizzonte.
Il treno, inoltre, ha i vagoni. E’ quindi un mezzo di trasporto “concatenato”, proprio come i desideri che sono concatenati, attaccati gli uni agli altri (come appunto i vagoni di un treno).
Sul treno salgono e scendono i passeggeri ad ogni stazione, cosa che non succede sulla nave.
Ciò che invece viene trasportato dalla nave è “nascosto” nella stiva e potrà essere scoperto soltanto all’arrivo.
Il treno (o il tram che si chiama desiderio di Kazan) è quindi una macchina desiderante, impersonale, dove i desideri dei passeggeri si alternano e comunicano, si incatenano e viaggiano individualmente, ma collettivamente, seguendo dei binari prestabiliti.
La nave, invece, è una macchina che tende verso il desiderio, verso la scoperta di ciò che c’è, appunto, sotto coperta, in navigazione costante verso l’orizzonte…
Ha quindi più senso parlare di treno dei desideri o di nave dei desideri?
Il treno dei desideri, forse, contiene desideri, mentre la nave dei desideri naviga verso il desiderio?
By: Damiano Garofalo on 2 gennaio 2010
at 13:15